Srebrenica: l’enclave si è fatta Inferno [E5]

Come si racconta un genocidio? Come si racconta il massacro di Srebrenica, ovvero la strage più consistente in Europa dopo l’Olocausto?

Forse dai freddi numeri delle vittime oppure partendo dal semplice principio. Oppure no, magari è possibile cominciare da qualcos’altro, magari dalle voci che si susseguono in quella cittadina dimenticata dalla Ragione umana.

C’è una piazza. È quella della base Onu. Ci sono venticinquemila persone che tremano di paura. Sono donne, bambini e uomini che pregano con le lacrime che gli scivolano sulle guance. L’aria è calda. Il sole però, in quei momenti, non riesce davvero a scaldarti. Gli occhi dei civili fissano lo sguardo sui Kalashnikov dei serbi. Guardano Mladic e non possono credere che quello non sia un incubo.

Si sentono delle voci tra la folla. Rendono tutta la situazione ancora più confusa e non fanno capire bene, dalla seconda fila in poi, quello che lo Scorpione annuncia: “Vi prego di avere pazienza. Chiunque voglia può restare. Chi vuole andarsene è libero di farlo.”

La voce si sparge tra i musulmani. Chi vuole – e chi non vorrebbe – può lasciare la città.

Srbrenica è un’enclave, ricca di profughi, protetta (?) dall’Onu ma circondata dall’esercito serbo. Perché non fuggire il prima possibile?

Vengono messi dei pullman a disposizione dei civili. Sembra che, nonostante tutto, ci sia ancora una speranza di sopravvivere. I bambini piangono, un po’ per la ressa e un po’ per il caldo, mentre le donne si rifugiano dietro le spalle dei propri mariti. Forse c’è vita fuori da Srebrenica, ma perché gli uomini dell’Onu cedono le armi ai soldati serbi?

La folla se ne accorge ma perché farsi queste domande? Meglio raggiungere i pullman senza dare troppo nell’occhio.

Si sentono delle voci, sono quelle dei civili che non comprendono ancora il loro futuro.

Intanto, già da qualche ora, un gruppo di quindicimila cittadini di Srbrenica si sono incamminati, all’interno di una foresta, per percorrere settanta chilometri e raggiungere una città “sicura” – come se in Bosnia, in quel momento, ce ne fosse qualcuna.

Un ex membro del Consiglio comunale, Ilijaz Pilav, dopo anni di distanza, racconta con gli occhi lucidi e la voce rotta dal pianto: “Prima di andarcene, il nostro ultimo messaggio radio fu: ‘Per noi il tempo è scaduto. Srbrenica è in mano al nemico. Stiamo cercando di scappare. […] Subito dopo esserci messi in cammino, siamo finiti in un campo minato. Abbiamo dovuto procedere in fila indiana. Io camminavo appoggiando i piedi sulle orme lasciate dall’uomo davanti a me. Era l’unico modo per evitare le mine.”

Intanto, nel piazzale della base Onu, i motori dei pullman sono accesi e pronti a partire. ‘Che uomini di poca fede’ penserà qualcuno. ‘Sono voluti partire a piedi quando, invece, qui ci sono gli autobus’.

Qualcuno se ne va, sì. Sui duri schienali dei pullman serbi siedono molti bambini e tante donne. Mancano gli uomini. I serbi li vogliono far partire per ultimi. ‘Prima le donne e poi bambini’ verrebbe da dire. Nonostante la guerra, forse, pure gli uomini di Mladic si ricordano della galanteria. Quegli uomini, però, non partiranno mai.

Si sente in lontananza le ruote girare, gli autobus ballano un po’ sulle strade bosniache mal ridotte – colpa delle bombe – e i vecchi motori brontolano abbondantemente – per via del sovraffollamento interno. Intanto, nel piazzale Onu, riecheggiano gli asettici colpi dei Kalashnikov.

Non so quanti proiettili ci vogliano per uccidere 8372 uomini. Francamente, non so nemmeno con che occhi si possa guardare più di ottomila uomini morire.

Intanto, i ‘camminanti’ si muovono in un sentiero che, pur essendo ricolmo di alberi e di piante in fiore, pare proprio l’inferno.

“Eravamo circondati. Ci hanno sparato addosso con i lancia-razzi.” racconta Zulfo Salihovic, uno dei sopravvissuti. Il terreno è minato, i serbi sparano sui quindicimila esodati e trovare un modo per sopravvivere è impossibile. I boati degli spari impediscono anche solo di pensare. Anche solo respirare è un’impresa quando la Morte gioca, in maniera così sadica e perversa, con quelle anime senza speranza.

“A quel punto gli uomini hanno perso il controllo dei loro nervi. Si sono puntati le armi l’uno contro l’altro [intende i bosniaci n.d.r.].” incominciarono, così, i suicidi – come se non fossero già morti-, racconta Pilav. E poi continua: “Tre amici si sono abbracciati. Poi uno ha tolto la sicura ad una bomba. Sono morti insieme.”

Non so che voci si potessero sentire in quella foresta. L’eco delle bombe coprì tutto.

Nel piazzale Onu, però, ci sono ancora delle parole e delle urna. Le prime sono degli uomini di Mladic che, tra una sigaretta e l’altra, si permettono anche di scherzare; le seconde sono emesse da delle donne che, mentre l’esercito serbo ‘tutela’ gli interessi dei loro connazionali residenti in Bosnia, vengono ripetutamente stuprate.

Srebrenica è stata, in quei giorni, una città fuori dalla grazia della Ragione e quelle urla, per il bene di tutti, è meglio non raccontarle.

Informazioni e dichiarazioni riprese dal documentario Jugoslavia – Morte di una nazione

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