Karadzic-Mladic: strategie per un massacro [E4]

Ormai siamo a più di metà della nostra rubrica sui Balcani e mi sembra doveroso, anche solo per un attimo, ribadire come eventi così macroscopici, come una guerra per l’appunto, passino da storie di vita quotidiana. Passano dalle strade, dalle storie d’amore e anche, ovviamente, dai giochi politici. La guerra dei Balcani, quella che ha ucciso migliaia di persone, quella che ha spezzato la vita a Stati interi, quella che ha ucciso Admira e Bosko, ha sempre – un po’ come se giocasse con il destino – avuto origini meramente spicciole. Capricci, giochi di potere, sgarbi istituzionali e trame cervellotiche, che hanno inevitabilmente portato ad imbracciare le armi.

Con questo articolo, ancora una volta, vi voglio portare nei meandri della quotidianità e delle tattiche governative. Vi chiedo una cortesia, quando leggerete questo racconto fatelo con una stella cometa sempre ben chiara: era tutto, semplicemente, evitabile.

“Se vogliamo ottenere la pace allora dobbiamo mettere insieme questi tre popoli. Devono imparare a condividere il potere e a convivere in uno Stato. E noi dobbiamo ricucire quello Stato.”

Così, Lord Owen annuncia il suo patto di pace. Siamo nel 1993 e la guerra in Bosnia-Herzegovina ha incominciato a mietere centinaia di vittime. L’Onu, tramite il suo mediatore, propone una soluzione discutibile ma pur sempre una soluzione che avrebbe, almeno temporaneamente, messo il lucchetto ai Kalashnikov serbi. È una strategia, un compromesso. È un metodo che avrebbe arrestato il genocidio, se davvero ci fosse stata la volontà di tutti di fermarlo.

Molto semplice e allo stesso tempo molto contorto. La neonata BiH del presidente Alija Izetbegovic sarebbe stata divisa in dodici province: cinque serbe, quattro bosniache e tre croate. Sarebbero state dell’entità autonome dal punto di vista dell’istruzione, dei trasporti e dell’organizzazione della polizia, ma pur sempre sotto la stessa bandiera.

Si respira un’aria di speranza tra le fila dell’Occidente. C’è un odore nuovo tra le narici dell’Europa: quello della pace.

Owen, ideatore e promotore del piano, vola a Belgrado il 25 aprile 1993 e, come calpesta il suolo serbo, annuncia davanti ad una schiera di giornalisti: “La questione é: i serbi di Bosnia-Herzegovina, di Serbia e del Montenegro vogliono opporsi al mondo intero?”. Il mediatore traspira tensione ma allo stesso tempo sa di avere un asso nella propria manica, ovvero, quello di poter minacciare delle pesanti sanzioni economiche e non solo contro la fazione di Milosevic. Le opzioni sono sostanzialmente due: accettare il piano e mettere fine alle velleità bellicose; oppure ricevere un attacco violento dell’Occidente nei confronti della piccola Jugoslavia.

Slobodan Milosevic, il grande stratega dei Balcani, annusa l’affare. Sa che il Patto Vance-Owen permetterebbe a Belgrado di raggiungere un buon bottino di territori. Egli, senza grosse esitazioni, accetta la proposta.

Il primo maggio del 1993, con grande fretta, tutti i presidenti tribali della Jugoslavia che fu si riuniscono nel Palace Hotel di Atene. All’incontro, vista la situazione oggettiva, i bosniaci di Izetbegovic, i croati di Tudjman, i serbi di Milosevic e i croati-bosniaci approvato la soluzione occidentale. Tranne uno, solo una persona – di fronte ad una pace ormai quasi definitiva – storce il naso: Radovan Karadzic. Quest’ultimo non è una persona qualunque ma, ahinoi, il presidente della fazione serbo-bosniaca, ovvero, quella che attua in modo diretto l’invasione dello Stato di Sarajevo.

“Se firmiamo, grandi contingenti Onu verranno dislocati nelle nostre terre e noi saremmo isolati” sentenzia.

Qualche anno dopo, Milosevic osservò: “Karadzic non capiva gli aspetti positivi del piano. Era troppo ossessionato dalla questione territoriale.”

Radovan Karadzic ribadì: “Il piano per me era davvero troppo rischioso. All’Occidente bastava inviare diecimila soldati nei nostri due punti più vulnerabili e per noi serbi di Bosnia sarebbe stata la fine.”

Nonostante tutti i dubbi dello ‘Psicologo’, questo era il soprannome del leader dei serbo-bosniaci, alla fine firma il Piano Vance-Owen.

Pare che, anche solo per un momento, dalla Grecia filtri una nuove luce per tutti i Balcani. La speranza di un nuovo futuro abbraccia tutta la penisola slava.

“Oggi è un giorno felice. Un giorno di sole ad Atene e nei Balcani. Speriamo che sia l’inizio di un irreversibile processo di pace per la Bosnia-Herzegovina.”

C’è un problema, assolutamente non di poco conto, che fa tremare fin da subito i sogni di gloria di tutti le parti in causa. Infatti, per far sì che il Piano Vance-Owen entri effettivamente in vigore, serve l’approvazione da parte dell’assemblea serbo-bosniaca.

L’atto finale dunque viene rinviato a Pale, la capitale dei serbo-bosniaci nella BiH.

Radovan Karadzic, in quanto presidente dell’organo, prende per primo la parola: “Conoscete il piano: sarebbe una catastrofe. È difficile accettare i termini del patto ma continuare a combattere sarebbe peggio.” L’assemblea, in preda ad un raptus nazionalistico, applaude con gioia.

Lo sguardo di Milosevic, presente all’incontro come ospite d’eccezione insieme al presidente montenegrino Momir Bulatovic, si fa sempre più tetro. Capisce che il cammino di ratificazione si complica vertiginosamente.

A questo punto, ormai sarete abituati, subentra un nuovo colpo di teatro tipicamente balcanico. Radovan Karadzic, in pieno contrasto con la politica del suo leader Slobodan Milosevic, sfodera un’arma letale: Ratko Mladic. Lo Scorpione, il generale bollato dai Media internazionali come ‘criminale di guerra’, spariglia tutte le carte in tavola.

“Solo noi soldati vediamo la situazione con chiarezza” debutta con aria bolsa e dilaniata dalla polvere da sparo e dal sangue che ha fatto versare. Mostra due mappe della Bosnia-Herzegovina: una evidenzia le terre conquistate con i Kalashnikov e con gli stupri dal suo esercito; l’altra racconta le porzioni di territorio che la Serbia acquisirebbe (politicamente) con il Patto Vance-Owen.

“Quando vedemmo quelle mappe, Milosevic ed io restammo di sasso. Non capivamo a cosa Mladic stesse mirando” commentò Bulatovic in seguito.

Biljana Plavsic, membro dell’assemblea, racconta l’impressione che generarono quelle cartine geografiche: “I delegati non dovettero pensare a lungo, era chiaro a quanto territorio noi, serbi, avremmo dovuto rinunciare.”

La linea fu tracciata: in termini di conquiste meglio affidarsi alla politica del duo Psicologo-Scorpione. Milosevic a quel punto, calcolatore e stratega, sa benissimo che l’unico modo per invertire le sorti della votazione è quello di compiere un’arringa poderosa e assoluta: “Credo che non ci sia alternativa. Credo che dobbiamo scegliere la pace. Il piano è stato firmato da Karadzic ad Atene. È un buon piano. Tutela gli interessi dei serbi di Bosnia e di tutti i serbi.”

Successivamente il presidente montenegrino, Momir Bulatovic, dichiarò: “Se si fosse votato in quel momento, credo che avremmo vinto. I delegati avevano cominciato ad accettare le nostre argomentazioni ma ci fu una pausa.”

Ecco, è qui che il quotidiano entra a gamba tesa negli equilibri macroscopici. Una pausa, un semplice momento di decompensazione che rivoluziona, per l’ennesima volta, tutto quanto.

L’assemblea, infatti, riprende il suo lavoro ma, per merito (?) di Karadzic, con una piccola differenza: lo fa a porte chiuse. E sapete chi sono rimasti fuori dall’aula? Slobodan Milosevic e Momir Bulatovic. I due uomini che, solo con la loro presenza, dovevano garantire l’esito positivo della votazione. È bastata, forse, una sigaretta in più. È bastato qualche secondo di ritardo che ha permesso l’esecuzione del piano vigliacco dello Psicologo – in combutta con Mladic. I due grandi leader pro-Piano Vance-Owen fuori dalla porta mentre, all’interno dell’aula, passa la Storia e la vita di migliaia di persone.

È abbastanza pleonastico dire, a questo punto, che il progetto di pace, voto dopo voto, viene affossato dall’assemblea serbo-bosniaca.

Il piano fallisce e trascina con sé, drammaticamente, tutta la Bosnia-Herzegovina.

I Kalashnikov, infatti, tornarono a sparare.

Informazioni e dichiarazioni riprese dal documentario Jugoslavia – Morte di una nazione

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