Il presente e il futuro della Jugoslavia che fu [E6]

Quando raccontiamo la storia della guerra dei Balcani, puntualmente ci fermiamo agli Accordi di Dayton. Ma questo è un piccolo nostro errore totalmente involontario perché tutte le nostre energie, tutta la nostra indignazione e il nostro dolore, le concentriamo sul mero scontro armato. È un fatto logico e capibile ma non del tutto corretto.

Alla fine, anche quella drammatica vicenda durata per circa dieci anni (se vogliamo comprendere anche la guerra kosovara) è finita. Alla fine, anche nei Balcani, è giunta la pace. È inevitabile che, anche in questo caso, per misurare lo stato di salute di quest’area bisogna volgere il nostro sguardo a Sarajevo.

Perché? Perché è la capitale dello Stato che ha fornito il numero più alto di vittime ed è anche la nostra Gerusalemme. Ovvero, il luogo nel quale le tre grandi etnie, di religioni diverse, convivono e sopravvivono. Inoltre, accanto ai bosgnacchi (cioè, i musulmani), ai croati e ai serbo-bosniaci, ci sono pure gli ebrei e i gitani.

C’è un uomo, che in Bosnia è un mito popolare, che durante lo scontro armato ha combattuto tenacemente in difesa di Sarajevo. Egli si chiama Jovan Divjak, è un ex-generale, ed è un serbo-bosniaco. Un signore, ormai con molti inverni alle spalle, che non ha risposto presente alla chiamata alle armi di Milosevic. Egli, infatti, si è seduto nella fazione opposta a quella delle sue origini. Ha difeso la sua casa, la sua città e il suo popolo, andando contro a qualsivoglia stereotipo o richiamo nazionalistico.

Bollato dai serbi come ‘traditore’, Divjak si racconta come un “cittadino di Sarajevo e un vero cittadino europeo”. L’ex-generale ormai è un simbolo ed una riposta forte a tutto quello che ci è stato raccontato dalla politica sanguinaria di quegli anni. La guerra dei Balcani, nonostante i massacri di Vukovar e Srbrenica (per citarne solo alcuni), non è e non sarà mai una guerra etnica. Lo scontro armato, se leggiamo bene le parole dei leader politici di allora e se analizziamo i loro interessi in gioco, scopriremo che la religione e l’etnia sono state solo delle mere foglie di fico che hanno nascosto le vere motivazioni di quella tragedia.

Divjak, uomo di origine serba ma vero protettore dei caravanserragli e dei minareti di Sarajevo, ne è l’emblema più rappresentativo.

C’è un monumento sulla Marsala Tita, una delle vie più trafficate della capitale bosniaca, che contiene tutti nomi dei 1500 bambini uccisi durante l’invasione degli uomini di Mladic e Karadzic. Quei nominativi appartengono, in maniera molto omogenea, a tutte e tre le etnie in gioco: sono musulmani, serbi-ortodossi e pure cattolici-croati. Ciò dimostra che le bombe non hanno fatto differenze. Sono state, per l’eterogenesi dei fini, gli elementi più democratici dello scontro armato. Infatti, hanno colpito tutti indistintamente perché una granata o un colpo di mortaio non si cura dell’origine del sangue o della cultura di una vittima. Colpisce ed uccide senza chiedere i documenti.

Sono sempre stato dell’idea che Sarajevo abbia molto da insegnarci. Oggi, nonostante i morti e le tremende divisioni politiche, i sarajevesi vivono insieme in armonia. I bambini musulmani vanno a scuola su autobus guidati da autisti croati e vengono istruiti da professori serbi. Le coppie miste, un po’ come Admira e Bosko, sono estremamente frequenti. Nella Bascarsija – il centro storico della città – è un quartiere musulmano nel quale lavorano e prosperano anche le altre etnie grazie ai turisti.

Oggi Sarajevo è una città bellissima con un drammatico passato alle spalle che vuole, però, guardare sempre avanti. Fissa sempre il suo sguardo verso il futuro.

Con questa Rubrica abbiamo raccontato i momenti più bui dei Balcani. Vi abbiamo raccontato le morti, i giochi politici e le risposte pacifiche ed amorose dei civili. Ciò serve a non dimenticare mai quello che è successo ma, allo stesso tempo, si vuole dimostrare che si può andare avanti e sperare in un domani roseo e florido.

Vogliamo invitarvi, dopo i fiumi di parole che abbiamo scritto, a fare un viaggio: quello nei Balcani. Camminate tra le vie di Sarajevo, innamoratevi di Spalato e gioite di fronte al ponte di Visegrad. La guerra è finita ed ora tocca a noi, camminando su quelle terre, a mettere davvero la parole ‘fine’ alla Jugoslavia che fu.

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