Chiudi la porta e spegni la luce, presidente

Milorad Dodik, il leader politico dei serbo-bosniaci e membro della presidenza tripartita che governa in Bosnia-Erzegovina, è una figura che sta facendo discutere parecchio nei Balcani.
Tra le altre cose, reclama la secessione della Republika Srpska, risollevando le ceneri di scontri e tensioni mai risolte del tutto nell’area.

Ho ragionato molto sul come scrivere l’articolo di oggi per Frammenti di storia. Non nego, soprattutto leggendo le carte ed ascoltando le dichiarazioni dei vari protagonisti degli attuali scompensi della Bosnia-Erzegovina, che una sensazione di svilimento si sia presa la nostra analisi dell’attualità. In sintesi: nei Balcani persiste una formazione di politici abietti e discutibili che minacciano e millantano secessioni e divisioni, senza assolutamente prendere in considerazione il benessere e la sicurezza dei propri cittadini. Ma andiamo per gradi, altrimenti ci perdiamo nel marasma del generico e del qualunquismo di bassa lega. Partiamo dalla Bosnia, partiamo dalla situazione politica attuale e dal grande tema che riecheggia nei giornali locali e affossa la popolazione: Milorad Dodik, il leader politico dei serbo-bosniaci e membro della presidenza tripartita, annuncia (per l’ennesima volta) la secessione della Republika Srpska. No, siamo già andati troppo in avanti: facciamo un enorme passo indietro.

Nel 1995, quando ancora la guerra imperversava in ogni angolo della BiH, tre uomini, Alija Izetbegovic, Franjo Tudjman e Slobodan Milosevic, firmarono gli Accordi di Dayton, sotto gli occhi della comunità internazionale e del “super soggetto terzo (quarto, in questo caso)” Richard Charles Albert Holbrooke. Un patto che siglò la fine della guerra (d’aggressione dei croati e dei serbi contro la popolazione bosgnacca o non allineata della Bosnia-Erzegovina ai diktat di Belgrado). Pace fatta e poi? E poi furono gettate – e qui subentra l’ignobile compito degli Accordi – le basi per il futuro dello stato di Sarajevo. 

La nazione venne divisa in due entità: il 51% del territorio prese il nome di Federazione BiH, a maggioranza bosgnacca e croata, mentre l’altro 49% divenne Republika Srpska, ovvero a maggioranza serba (che poi non è nemmeno verissimo, in quanto i musulmani di Bosnia sono numericamente superiori anche in quell’area, ma tant’è). Orbene, basta? No, ovviamente. Gli Accordi di Dayton, nati per far sì che lo stato bosniaco convolasse entro dieci anni a riforme virtuose e moderne capaci di portare Sarajevo nell’Unione europea e nella Nato, dichiararono che i tre popoli costitutivi (bosgnacchi, serbi e croati) vivessero in armonia e con pari diritti sotto lo stesso tetto. Da lì, nacque l’idea di creare la presidenza tripartita, con tre presidenti provenienti dalle tre etnie, muniti di veto per fermare qualsivoglia legge che non gli andasse a genio. Ah, ovviamente ogni etnia vota il suo presidente e i suoi partiti. Risultato? Ogni realtà preferisce il personaggio più divisivo e poco incline al dialogo. “Vota me, perché io ti difendo dagli altri”, verrebbe da immaginarsi. 

Oggi, dunque, a distanza di 27 anni dagli accordi “americani”, abbiamo una situazione di questo genere: la Federazione BiH è composta da dieci cantoni con statuti (o costituzioni), governi, tribunali e parlamenti diversi tra loro e la Republika Srpska (che invece ha una struttura unitaria) pure – manco a dirlo. In tutto questo, va ricordato il distretto di Brcko: una realtà sorretta dall’arbitraggio che dal 1999 vive per conto proprio. Ovviamente, proprio perché nessuno nel 1995 aveva compreso la follia degli Accordi di Dayton, niente si è evoluto per come era stato pronosticato: poche riforme, debole armonia e molteplici politiche interne profondamente diverse e contrastanti tra di loro. C’è chi crede nel federalismo, ovvero i croati (così amplierebbero i propri poteri), chi punta sulla centralizzazione (ovvero i bosgnacchi perché sono l’etnia maggioritaria) e chi l’autonomia vera e propria (i serbi).

In tutto ciò, mentre la popolazione è sempre più povera, impaurita dalla pandemia, dalla disoccupazione e da un’aria e un’acqua sempre più inquinate, il nostro Milorad Dodik – presidente in quota serba e leader dell’Unione dei socialdemocratici indipendenti – il 28 ottobre scorso ha lanciato un ultimatum al suo Paese. Parafrasando: “Se entro sei mesi, la Bosnia-Erzegovina (ripeto: sarebbe il suo Paese, ndr) non cede alcune competenze alla Republika, come giustizia, agenzie per le imposte indirette ed esercito) procederemo alla secessione”. Risultato? Per ora nulla, a parte che gli Stati Uniti hanno inflitto nuove sanzioni nei confronti del sedicente statista.

Ma andiamo oltre e sorvoliamo su un politico che, come viene continuamente ripetuto in Bosnia-Erzegovina, minaccia ma non preoccupa (almeno per ora, visti i suoi precedenti). Possiamo dunque compiere un’affermazione chiara ed evidente: gli Accordi di Dayton hanno completamente fallito. Su tutti i fronti. Ora che si torna a parlare con frequenza di secessione (e quindi possibilmente di violenze) non c’è più nulla da salvare di quei patti. La Bosnia-Erzegovina è politicamente, socialmente ed economicamente ferma al palo, strangolata dalla corruzione, dalla disoccupazione e dalla pandemia. E i primi responsabili sono senza ombra di dubbio i politici stessi. E il rischio guerra? Per ora, almeno secondo gli organi d’informazione bosniaci, pare non ci sia. Anche perché ci può essere ancora qualcuno disposto a morire per portare avanti le velleità di una classe dirigente così indigeribile e incurante dei bisogni dei cittadini? 

La speranza, dunque, è che la politica non abbia più alcuna presa sui cuori della gente. Sarà vero? Non è dato saperlo. C’è però d’ammettere un’ultima questione: ove mai qualcuno lanciasse anche solo una noce per i diktat dei vari Dodik e compagnia cantante, beh, allora sì, per la Bosnia-Erzegovina non ci sarebbe più alcuna speranza. Caro Dodik, se te ne andassi, ricorda: chiudi la porta e spegni la luce.

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