La guerra civile afghana del 1979: l’inizio di un domino storico non ancora finito

La presa di Kabul da parte dei talebani del 15 agosto, il ventesimo anniversario dell’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre, mai come nell’ultimo periodo l’Afghanistan è stato al centro dell’attenzione politica internazionale.

Reportage, immagini e dibattiti sul crescente potere del gruppo fondamentalista hanno invaso i nostri media lasciandoci attoniti davanti alla disperazione dei cittadini afghani in cerca di scappare dal loro presente. Per meglio comprendere quanto sta accadendo a Kabul, però, è necessario fare un passo indietro, scomporre la storia in piccoli tasselli ed analizzarli uno ad uno.

Il primo pezzo del domino afghano si colloca verso la fine della Guerra Fredda nel 1979, quando il Pese venne invaso da un conflitto aggravato dalla partecipazione dell’Unione Sovietica e degli Stati Uniti.

L’Afghanistan, una repubblica dall’equilibrio precario

In seguito alla cacciata del re Mohammad Zahir Shah nel 1973, l’Afghanistan venne proclamato uno stato repubblicano fondato sul progressismo rivoluzionario e l’unità nazionale. A guidare la rivolta fu l’ex primo ministro Daoud Khan, le cui misure politiche ultranazionaliste adottate negli anni 60 avevano aumentato la rivalità tra Afghanistan e stati confinanti come il Pakistan, alleato degli Stati Uniti. Per questo motivo, una volta formatosi il nuovo governo afghano sotto la guida di Khan, Mosca si avvicinò a Kabul dimostrando il proprio supporto per il nuovo assetto politico del Pese e promettendo aiuti per le politiche interne ed esterne proposte da Khan. Questo incontro sancì così l’inizio di una cooperazione afghano-sovietica che posizionò Kabul nel blocco orientale della cortina di ferro.

Eppure, l’esperienza di Khan non durò molto. Nonostante la sua fedele alleanza coi sovietici, la sua linea non piaceva ai comunisti afghani, i quali presero le redini del Paese nel 1978. L’arrivo dei comunisti al potere fece dell’Afghanistan un vero e proprio Paese satellite di Mosca ed intensificò le tensioni sociali all’interno del Paese. Non solo il partito comunista afghano era diviso in fazioni radicali e conservatrici, ma si trovava pure a gestire il dissenso da parte delle moschee, le quali erano contrarie alle misure adottate dal partito. Vista la situazione estremamente precaria, l’Unione Sovietica decise di andare in aiuto al proprio partner siglando nel dicembre 1978 il trattato di amicizia tra Kabul e Mosca in nome di cooperazione ed assistenza militare.

Malgrado i tentativi di stabilizzazione dell’equilibrio politico del Paese, però, le tensioni civili non cessarono. Il 27 dicembre 1979, infatti, il presidente afghano Amin fu vittima di un tentativo mancato di avvelenamento mentre il suo palazzo si ritrovò sott’attacco. Ebbe così inizio la guerra civile afghana, la quale però, rimase per poco all’interno dei confini nazionali, attirando l’attenzione delle superpotenze. 

Da guerra civile a calamita della Guerra Fredda

Invocando il patto di amicizia del 1978, l’Unione Sovietica non tardò ad intervenire nel conflitto afghano. Certo, le promesse giuridiche fatte all’alleato mediorientale erano importanti per Mosca, ma ancora più fondamentale era non far precipitare il Paese nelle mani dell’avversario capitalista. L’Unione Sovietica, infatti, temeva che gli Stati Uniti avrebbero potuto approfittare della situazione caotica per attirare sotto il loro blocco anche l’Afghanistan in modo da acquisire un vantaggio nello scacchiere mediorientale.

Nella politica realista e spietata della Guerra Fredda, le previsioni russe non tardarono ad avverarsi. In seguito alle debacle del conflitto vietnamita, gli Stati Uniti decisero di non partecipare direttamente con il proprio esercito alla guerra civile afghana, ma piuttosto di finanziare i gruppi anticomunisti per indebolire Mosca. Già dall’estate del 1978 Washington iniziò ad investire economicamente e supportare con armamenti bellici i mujahidin, ovvero gli oppositori del regime comunista pronti ad intraprendere una guerra santa nel nome dell’islam, la cosiddetta jihad. Dunque, durante la guerra civile afghana, gli Stati Uniti si allearono con i fondamentalisti islamici, predecessori dei talebani, in modo da poter togliere l’Afghanistan dal blocco sovietico. In questo modo, la guerra civile afghana divenne presto una calamita per la rivalità tra Mosca e Washington, le due potenze che, ancora una volta, si scontrarono indirettamente in un Paese al di fuori dei loro confini. 

La guerra civile si concluse formalmente il 14 aprile del 1988 con la sigla degli accordi di Ginevra, con cui l’Unione Sovietica si impegnò formalmente a ritirare i propri contingenti dall’Afghanistan. Già da anni, infatti, le truppe russe si ritrovavano in difficoltà nel tener testa ai combattenti islamici, un po’ a causa della crisi disgregativa attraversata dall’Unione Sovietica ed un po’ per la superiorità bellica dei mujahidin guadagnata grazie all’alleanza statunitense. 

Al termine della guerra, però, le vere vittime non erano di certo le due superpotenze. L’Afghanistan era un Paese letteralmente distrutto e socialmente lacerato, tanto che solamente nel 1992, i talebani rovesciarono il regime politico che si stava occupando della rinascita del Paese, instaurando così un sistema fondamentalista ed autoritario. 
Insomma, sebbene sia importante guardare con preoccupazione e criticità quanto sta accadendo ad oggi in Medio Oriente, altrettanto necessario è domandarsi il come ed il perché si è arrivati a questo punto. La storia, infatti, porta sempre con sé le sue responsabilità. 

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