La regione del Kashmir sta subendo una cancellazione culturale

La regione del Kashmir è stata causa di tre su quattro grandi guerre e di un paio di “quasi guerre” combattute tra l’India e il Pakistan. Da più di 70 anni tre potenze nucleari combattono sopra le teste degli abitanti del Kashmir nel quasi totale silenzio stampa internazionale. A quegli stessi abitanti il governo indiano sta negando il diritto di cittadinanza, situazione tristemente simile a quello che vivono i curdi in Siria dai tempi di Hafiz al-Assad. Per fare luce su queste condizioni è necessario riavvolgere il nastro fino al 1947, quando tramite gli accordi stipulati dal governo britannico, il subcontinente indiano vide la nascita di due Stati distinti: India sarebbe stata dove la maggioranza era hindu, Pakistan dove il predominio era musulmano. Quella parte di popolazione con la fede sbagliata nel territorio sbagliato diede inizio ad una migrazione di popoli che non aveva avuto eguali nella storia. Il principato del Jammu & Kashmir tuttavia era un’eccezione, poiché aveva un monarca hindu (Hari Singh) e una popolazione a maggioranza musulmana; al principato fu lasciata la libertà di scegliere l’annessione ad uno dei due Stati (o l’indipendenza). Il maharaja Hari Singh decise per l’annessione all’India (il Pakistan non la prese bene e tentò un golpe che si concluse con un nulla di fatto). Il governo indiano concesse alla regione una larga autonomia che altri Stati non avevano. Questo almeno fino al 4 agosto del 2019, quando le linee telefoniche e le connessioni internet vennero improvvisamente interrotte. Il 5 agosto sette milioni di persone rimasero bloccate nelle loro case per colpa di un rigido coprifuoco militare. Circa diecimila arrestate e sottoposte a detenzione preventiva (alcune di esse ancora in carcere). Il ministro dell’interno Amit Shah affermò che il problema del Kashmir era finalmente risolto, e che la sua battaglia decennale per l’autodeterminazione (che ha comportato la morte di migliaia di vittime civili e militari, più l’aggiunta di migliaia di corpi torturati e misteriosamente scomparsi), era finita. Queste parole furono accolte dagli indiani con urla di gioia per le strade.

Ad un anno dalla cancellazione indiana dell’autonomia della regione, la lotta non è affatto finita. I mezzi d’informazione sostengono che nei mesi scorsi siano stati uccisi 34 soldati, 154 militanti e 17 civili. In un anno in cui la comunità internazionale è stata impegnata nell’arginare i danni della pandemia del covid-19, il resto del mondo ha comprensibilmente trascurato il mancato accesso agli ospedali, luoghi di lavoro, negozi, alle scuole e alle persone care andate avanti per mesi nel Kashmir. Oltre al dolore portato dal virus, queste persone hanno dovuto fare i conti con labirinti di filo spinato, irruzioni dei soldati nelle loro case, pestaggi di uomini e stupri di donne, saccheggio delle scorte di cibo, grida di uomini torturati amplificate da sistemi di diffusione audio. In aggiunta, è stata approvata una legge che concede ai cittadini indiani il diritto di trasferire la propria residenza in Kashmir, e i certificati di residenza degli abitanti del Kashmir sono diventati carta straccia. La riforma del domicilio è legata alla nuova legge sulla cittadinanza approvata nel 2019, una norma  chiaramente contro i musulmani. Questa legge sulla cittadinanza e la nuova legge sul domicilio obbligano i residenti a presentare una serie di documenti approvati dallo Stato per ottenere la cittadinanza nel proprio Paese (a qualcuno forse ricordano le leggi di Norimberga del 1935).

Ma in Kashmir, oltre al conflitto interno con l’India, coesiste una lotta difensiva con i Paesi confinanti; guarda caso, tutte potenze nucleari (Cina, India, Pakistan). E a questo punto ci si addentra in un territorio spinoso. Amit Shah ha infatti dichiarato di essere pronto a dare la vita per conquistare i territori del Kashmir in mano al Pakistan, l’Azad Kashmir, e in mano alla Cina, l’Aksai Chin. Il governo cinese ha risposto invitando l’India a “usare prudenza sia nelle parole sia nei fatti per quanto riguarda il confine”.  Il 17 giugno 2020 è uscita la notizia di venti soldati indiani assassinati lungo il confine tra il Ladakh e la Cina (Valle di Galwan) per mano dell’esercito cinese. Questo attacco è di difficile interpretazione: la Cina vuole davvero iniziare spudoratamente le ostilità contro l’India (come affermano i media indiani) o cerca semplicemente di difendere interessi che considera vitali (una strada che attraversa le alte vette dell’Aksai Chin e una rotta commerciale che attraversa l’Azad Kashmir)? Perché se Pechino vuole prendere sul serio le dichiarazioni belligeranti del ministro dell’interno indiano, questi interessi sembrano veramente a rischio. Analizzando la situazione da un punto di vista puramente militare, per mantenere un esercito stabile ed equipaggiato per il conflitto ad alta quota al confine del Ladakh (anche senza una guerra ufficiale), e avvicinarsi lontanamente all’arsenale della Cina, il budget militare dell’India dovrebbe raddoppiare, se non triplicare. E comunque non basterebbe. Una manovra di questo tipo, tra l’altro, porterebbe un enorme danno a un’economia che stava già soffrendo prima del blocco dovuto al covid-19 (con un tasso di disoccupazione mai visto negli ultimi 45 anni) e che ora minaccia di subire una contrazione compresa tra il 3,2 e il 9,5 per cento. Nelle prime fasi di questa partita di dama cinese il Primo Ministro indiano Narendra Modi sta perdendo. Ma i cittadini indiani questo non lo capiscono. Il 7 settembre si sono sentiti risuonare colpi di arma da fuoco sulla linea di confine dei due Paesi (teoricamente le armi da fuoco sarebbero proibite da un accordo comune). Negli ultimi mesi tra i due giganti asiatici è risalita la tensione, e tutti i tentativi di pacificazione sono falliti, compreso l’incontro organizzato a Mosca all’inizio di settembre. “L’esercito cinese è pronto al peggio e ha la capacità di infliggere una sconfitta all’esercito indiano in caso di conflitto a qualsiasi livello”, ha scritto il caporedattore del quotidiano cinese Global Times; parole che non rassicurano, soprattutto se ci si ferma un secondo a pensare che stiamo parlando di una manciata di chilometri quadrati sull’Himalaya.

Con il Pakistan, nemico di lunga data, la situazione non è migliore. Dal punto di vista del Pakistan, in Kashmir una potenza occupante (l’India) nega l’autodeterminazione alla popolazione musulmana occupata. Dal punto di vista dell’India invece, una potenza straniera (il Pakistan) foraggia una ribellione e infiltra terroristi attraverso la “Linea di controllo”, frontiera di fatto tra i rispettivi territori. Dall’inizio di questo secolo tra i due Paesi si sono alternati momenti di escalation e di relativa calma.

Soldato della BSF indiana al confine con il Pakistan

Nel 2002 le due potenze atomiche hanno schierato gli eserciti in stato di massima allerta; tra il 2005 e il 2008 hanno avviato il più promettente ciclo di negoziati dal 1947. Nel dicembre 2008 l’attacco terroristico a Mumbai del gruppo jihadista Lashkar-e Taiba (che ha base in Pakistan) ha bruscamente riportato il gelo. Benché nell’agosto 2011 siano ripresi i contatti bilaterali, le relazioni restano fredde; sul terreno dal 2014 sono frequenti gli scontri di frontiera tra i due eserciti. Un attentato suicida che ha ucciso oltre 40 militari indiani nel febbraio 2019 ha rialzato la tensione. È stato rivendicato dal Lashkar-e Taiba, organizzazione armata di stampo jihadista che ha notoriamente base in Pakistan. L’attentato è stato l’attacco più sanguinoso dal 1989 (insurrezione separatista). La rappresaglia indiana è arrivata il 26 febbraio con un attacco aereo in territorio pachistano; l’India afferma di aver colpito “basi terroriste”. Il giorno dopo il Pakistan ha risposto con analogo raid aereo e ha abbattuto due jet indiani sul proprio territorio, prendendo prigioniero un pilota. La tensione ha subito una battuta di arresto quando il Pakistan ha riconsegnato all’India il pilota catturato; è durata quattro giorni, e ha chiuso per l’immediato futuro ogni possibile apertura diplomatica sul Kashmir. Nella narrazione ufficiale di New Delhi, ogni violenza nel territorio himalayano è addebitata al Pakistan e ai miliziani infiltrati attraverso la “Linea di controllo”. Il ruolo del Pakistan nell’armare le milizie nel Kashmir indiano è innegabile, ma le ragioni che alimentano la rivolta sono soprattutto interne.

Per riassumere, il Kashmir è una polveriera con implicazioni regionali, e la cancellazione culturale del suo popolo non è retorica ma uno scenario fin troppo presumibile. L’India ha reso chiaro più volte che il Kashmir è territorio indiano. Ma se la Cina decidesse di violarne formalmente i confini, riuscirebbe a difendersi? In fondo nessun paese vorrebbe un drago sull’uscio di casa.

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