Il non futuro della spartizione territoriale


L’obiettivo degli Stati Uniti d’America, in ragione delle prossime elezioni politiche, è quello di normalizzare i rapporti tra la Serbia di Aleksandar Vucic e il Kosovo di Hashim Thaci. Purtroppo, però, la strategia adottata rischia di provocare un pericoloso effetto-domino.

Studiando la storia dei Balcani, soprattutto quella relativa ai Paesi della ex-Jugoslavia, salta immediatamente all’occhio quanto i confini geografici siano fragili e portatori di tensioni politiche – che poi si trasformano, troppo spesso, in tensioni militari.

Gli anni Novanta hanno registrato lo smembramento di uno Stato, dal quale, nel giro di un decennio, hanno avuto origine ben sette nuove entità. I confini poi, soprattutto quelli relativi all’area meridionale, sono sempre stati al centro di vari scontri armati che hanno spezzato la vita a migliaia di persone.

Oggi, dunque, più che mai – sembra impossibile ma è così -, è necessario ribadire il concetto che la spartizione territoriale delle sette sorelle non può e non deve essere più messa in discussione.

Infatti, com’è noto, le tensioni tra Belgrado e Pristina, in ragione della secessione di quest’ultima nel 1999, non hanno mai avuto una sosta e la soluzione che negli ultimi tempi, è stata promossa, rischia di mettere in crisi tutta l’area balcanica.

Negli ultimi mesi, la risoluzione della questione, relativa al riconoscimento da parte della Serbia nei confronti del Kosovo, è divenuta una pratica d’interesse politico ed economico che va ben oltre i Balcani stessi.

L’Ue, mostrandosi particolarmente coesa sul tema, ha sempre ritenuto che la Serbia, per essere annessa alla comunità europea, debba necessariamente riconoscere l’indipendenza kosovara. Nel 2011, infatti, Bruxelles ha dato il via ai negoziati per la soluzione e la normalizzazione dei rapporti tra i due Paesi – registrando, in circa un decennio, oltre trenta accordi settoriali tra le parti in questione.

Purtroppo però non ci sono stati significativi passi in avanti. Poteva sembrare, dunque, una sorta di binario morto destinato ad essere seppellito da vari e nuovi obiettivi e accordi da stipulare e raggiungere. Ora, invece, non è più così. Infatti, negli ultimi mesi, il problema serbo-kosovaro è divenuto un tema principe nella politica estera di Donald Trump.

Il Presidente degli Stati Uniti d’America, a seguito dei deboli risultati ottenuti con la Corea del Nord di Kim Jong-un e non solo, vorrebbe ottenere un nuovo fiore all’occhiello da mostrare alle imminenti elezioni nazionali.

Tutto ciò ha comportato, senza troppo preoccuparsi della difficoltà con la quale è stata raggiunta una parziale pacifica convivenza nei Balcani, alla volontà di Washington di promuovere l’unico progetto presente sul tavolo delle trattative, promosso a fasi alterne da Aleksandar Vucic e Hashim Thaci.

Murales presente su un muro di Belgrado, raffigurante Donald Trump e Vladimir Putin ai lati della scritta “Il Kosovo è Serbia”.

I due presidenti si sono incontrati, nei mesi scorsi, negli Stati Uniti, grazie alla collaborazione di Richard Grenell, inviato speciale per i negoziati, e Matthew Palmer, Rappresentante Speciale dell’Amministrazione americana. L’obiettivo era quello di trovare una sintesi nei rapporti tra i due Paesi, permettendo così che il Kosovo venisse riconosciuto come Stato indipendente dalla Serbia e che, quest’ultima, potesse finalmente superare il vero ed ultimo ostacolo per l’entrata nell’Unione europea.

Alla base delle trattative – e quindi del futuro accordo -, in funzione alla normalizzazione dei rapporti tra i due Stati, c’è lo scambio di alcuni territori, ovvero: le aree a maggioranza serba, oggi attualmente in Kosovo, rientrerebbero nei confini di Belgrado; allo stesso tempo, i territori a forte presenza albanese in Serbia, passerebbero nei possedimenti di Pristina.

Gli effetti (domino, soprattutto) che potrebbero andarsi a formare hanno dei contorni assolutamente imprevedibili. L’analisi giornalistica, sia di stampo locale che internazionale, disegna uno scenario, legato proprio allo scambio dei territori tra Serbia e Kosovo (che quindi costituirebbe un pericoloso precedente), assolutamente preoccupante.

Basti pensare che se ci fossero delle variazioni nei confini (quindi con perdita e conquista di regioni, come quella di Presevo), ciò incendierebbe i vecchi – e mai abbandonati – spiriti nazionalistici che animano alcune frange dei due popoli (serbo ed albanese), sia sul piano sociale che politico.

A cascata, con il ritorno della Grande Serbia, c’è il rischio che pure altre regioni della penisola balcanica possano voler tornare nei confini di Belgrado. Su tutti, ovviamente, spicca la Republika Srpska nell’attuale Bosnia-Erzegovina. L’area in questione, a forte maggioranza serba, comprendente centri urbani del calibro di Banja Luka e Tuzla, grazie alle politiche secessioniste e pro-Serbia di Milorad Dodik, rischierebbe di divenire palcoscenico di tensioni e violenze.

Senza parlare dell’Erzegovina, circa un quarto della superficie del territorio bosniaco, che già subisce un forte corteggiamento politico dalla Croazia. Infatti, Zagabria, già da qualche tempo, concede passaporti croati (che significano “Unione europea”) alla popolazione locale.

Pare ovvio, dunque, che il precedente dello scambio territoriale tra Kosovo e Serbia, rischierebbe di portare alla distruzione della Bosnia-Erzegovina.

Non sono esclusi, inoltre, casi di secessioni o movimenti di massa capitanati dalla etnia albanese, in Montenegro e Macedonia del Nord.

Detto questo, c’è poi il problema di chi guida i trattati di normalizzazione tra Belgrado e Pristina. Il Presidente Vucic, per esempio, gode di un fortissimo controllo della macchina istituzionale-amministrativa, dei media ed è appoggiato dalla Chiesa. Ciò gli permette di giocare tutte le sue carte, senza alcun rischio di compromettere il proprio consenso e il proprio potere. Sostiene l’adesione all’Unione Europea, ciò nonostante non perde occasione di celebrare gli ottimi rapporti con la Russia di Vladimir Putin.

Il Presidente serbo Aleksandar Vucic

Inoltre, e questo è ciò che preoccupa maggiormente Washington e l’Unione europea, c’è la volontà da parte di Pechino d’investire e di penetrare nel mercato del vecchio continente. Questo comporterebbe, inevitabilmente, a nuovi investimenti di stampo cinese in Serbia. Non a caso, durante l’epidemia del Covid-19, la capitale è stata tappezzata da molteplici manifesti che, sia in lingua serba che in cinese, ringraziavano Pechino per gli aiuti sanitari forniti a Belgrado.

Dall’altra parte, sul versante kosovaro, c’è il Presidente Hashim Thaci. Quest’ultimo, nelle ultime settimane, è stato accusato di crimini di guerra e contro l’umanità, sparizioni forzate, omicidi, torture e persecuzioni, dall’ufficio del procuratore della Corte Speciale per il Kosovo (Aja) – insieme ad altri nove ex membri dell’Uck – per il conflitto armato con la Serbia avvenuto verso la fine degli anni Novanta.

È chiaro che, prima di poter realmente ritenere colpevole chiunque di reati di questo tipo, servono delle condanne definitive. E, ancora, nel caso specifico di Hashim Thaci, deve pronunciarsi il giudice preliminare per rinviare o meno a giudizio gli imputati. Ma la domanda sovviene spontanea: è davvero opportuno lasciare al Presidente della Repubblica kosovara, sotto indagini di stampo internazionale, l’incombenza delle trattative?

Il problema, in conclusione, è purtroppo sempre il solito: gli interessi politici (che spesso provengono da Stati extra-Balcani), ancora una volta, rischiano di poter scrivere il futuro e la pace dei Paesi della ex-Jugoslavia; l’Europa, per l’ennesima volta, rischia di perdere un’altra preziosa occasione di aiutare l’area (impedendo un accordo così pericoloso); gli Stati Uniti d’America promuovono degli accordi che porterebbero dei risultati più negativi che positivi (come nel caso degli Accordi di Dayton, nel 1995, per la Bosnia-Erzegovina); e il popolo balcanico, per l’ennesima volta, si sente ancora più solo e fragile.

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