La violenza contro le donne nella società messicana

Il 9 febbraio 2020, una ragazza di 25 anni, Ingrid Escamilla, è stata uccisa dal suo fidanzato a Ecatepec, alla periferia di Città del Messico. Il suo assassinio, il fatto che il suo corpo sia stato mutilato e il ruolo svolto dai media che ne hanno trasmesso le immagini, hanno provocato un’ondata di contestazioni di massa contro i crescenti femminicidi commessi nel paese.

Tale episodio ha quindi rilanciato il dibattito sulla violenza contro le donne in un paese profondamente pervaso da una cultura maschilista e misogina, che deriva da una società patriarcale e fortemente religiosa. In questo contesto di impunità quasi totale e di corruzione endemica, la violenza contro le donne è aumentata costantemente negli ultimi anni. Alcune cifre possono illustrare questa situazione: quasi la metà delle donne messicane sono vittime di violenza domestica. Un sondaggio rivelò che il 10% degli uomini messicani intervistati ritenevano “del tutto normale picchiare una donna disubbidiente.” Ogni tre ore in Messico, una donna viene uccisa. E ogni 18 secondi, un’altra viene stuprata. L’aumento della violenza potrebbe essere dovuto sia alla crescente indipendenza delle donne nella società messicana sia all’accesso delle donne al mondo del lavoro. Il femminicidio sarebbe quindi un mezzo di dominio e di affermazione patriarcale.

In seguito ad un’attenta analisi dei dati, ci si rende conto che tali forme di violenza sono esplose a partire dal 2006, anno in cui è iniziata la guerra contro i cartelli della droga. L’11 dicembre 2006, infatti, il presidente conservatore Felipe Calderón Hinojosa ha dichiarato un’operazione contro la criminalità organizzata nello stato di Michoacán, regione che nello stesso anno aveva contato più di 500 omicidi tra i vari cartelli della zona. Fin dall’inizio il governo ha scelto di fare un uso della violenza significativo mobilitando l’esercito nazionale, che ha colpito anche i civili. L’esercito si è permesso di violare alcuni dei diritti umani, facendo uso della tortura, dei casi di sparizione e di assassinio. Un’altra conseguenza è l’aumento del numero di armi in circolazione. In effetti, secondo il segretario alla difesa, nell’ultimo decennio circa 2 milioni di armi sarebbero state illegalmente importate in gran parte dagli Stati Uniti. Questo aumento delle armi in circolazione ha portato ad un aumento degli omicidi commessi utilizzando armi da fuoco (dai circa 5.000 del 2006 ad una media superiore di 15.000 nel 2020). Questo contesto rende le donne particolarmente vulnerabili alla violenza.

Le cifre della violenza esercitata nei confronti delle donne hanno continuato ad aumentare dall’inizio di questo conflitto, sollevando la questione della correlazione tra l’estrema violenza derivante dal conflitto armato interstatale e la violenza di genere. Il conflitto non fa altro che provocare un aumento della violenza, che esacerba vecchie forme di violenza contro le donne, creandone delle nuove. Se la guerra contro i cartelli iniziata nel 2006 ha creato all’interno del paese una situazione di conflitto armato che minaccia direttamente la sicurezza delle donne, la violenza contro di loro si basa anche su forti basi sistemiche sociali e istituzionali, e si inserisce in un contesto culturale di normalizzazione della violenza.

Per quanto riguarda il confronto delle donne con i cartelli, bisogna tener presente che in una società allo stesso tempo fragile e con uno Stato corrotto, i cartelli hanno potuto diversificare le loro attività. È proprio in questo contesto che la tratta delle donne è aumentata considerevolmente, alimentata in parte dall’aumento delle sparizioni: scomparse che nella grande maggioranza dei casi non sono nemmeno denunciate. Gli esponenti del crimine organizzato colpiscono quasi unicamente donne in situazione precaria, che non riescono a provvedere ai loro bisogni primari e che tendono quindi a rivolgersi a organizzazioni criminali per un sostegno. Sono poi le stesse organizzazioni che le costringono a partecipare alla vendita di droga o alla vendita dei loro corpi. Lo sviluppo di questo mercato è stato possibile solo grazie alla complicità della polizia e delle autorità locali, oltre che dello Stato nell’incapacità di esercitare il suo ruolo di protezione dei civili e di garante della giustizia. È quindi proprio la collusione tra la criminalità organizzata e le istituzioni governative, nonché l’impunità che ne deriva, che hanno reso le donne più vulnerabili, consentendo nel contempo la violazione dei loro diritti umani. 

In questa guerra contro i cartelli, come avviene anche per altri conflitti armati, le donne sono percepite come “bottino di guerra”. Rappresentano anche un modo per punire l’avversario e mostrargli la sua superiorità. Secondo María Salguero, autrice del libro “La mappa dei femminicidi in Messico”, i femminicidi sarebbero un mezzo per inviare un messaggio al leader avversario o alla polizia. È anche interessante notare che le zone di lotta di potere tra i cartelli sono le zone in cui il numero di femminicidi e di rapimenti è più elevato. Il fatto che i femminicidi coincidano con le vie di transito utilizzate dai cartelli per trasportare le loro merci, permette quindi di dimostrare che esiste una correlazione. Tuttavia, è importante notare che la violenza contro le donne non è esercitata solo dai protagonisti del conflitto, ma sono presenti in tutta la società. Se il conflitto alimenta la violenza, quest’ultima si basa anche su molle sistemiche concesse dall’assenza di un vero Stato di diritto.

Secondo il Comitato per i Diritti Umani in America Latina, la discriminazione delle donne si è accentuata con l’ingresso del Messico in un sistema neoliberale che ha aumentato le disuguaglianze sociali e che ha svalutato una manodopera a basso costo, per la maggior parte femminile, in particolare dopo la ratifica dell’accordo di libero scambio nordamericano (NAFTA). In effetti, questo accordo di libero scambio ha incoraggiato una migrazione rurale verso le città industriali del paese e verso gli Stati Uniti. Ciudad Juarez, ma anche più recentemente lo Stato del Messico, sono città la cui urbanizzazione è stata accelerata dalla presenza di industrie come maquiladoras, attirando migliaia di migranti rurali dal sud, tra cui donne single che sono tra le più vulnerabili alla violenza di genere. Se a questo si aggiungono disfunzioni urbane come una cattiva rete di trasporti e di illuminazione pubblica, le donne lavoratrici sono rese più vulnerabili mentre rientrano a casa la sera tardi. Infine, la posizione del Messico come via migratoria verso gli Stati Uniti è anch’essa un fattore di violenza: le donne migranti sono una popolazione molto vulnerabile e sono spesso vittime di tratta di esseri umani, rapite per essere prostitute, nella più totale indifferenza delle autorità. Tale dinamica è soprattutto favorita, incoraggiata, permessa da una situazione di totale impunità per i carnefici, caratterizzati da un’assenza statale di sicurezza e giudiziaria. 

Con un tasso di impunità fino ad oggi pari al 95%, i femminicidi contribuiscono alla normalizzazione della violenza contro le donne sia nello spazio pubblico che nella sfera privata. Tale impunità è permessa dall’assenza di un vero stato di diritto messicano, causato dalla corruzione, da un sistema giudiziario difettoso e da una polizia incompetente. Le sparizioni forzate che alimentano la tratta di esseri umani sono spesso permesse dalla complicità con la polizia e le autorità locali. La collusione tra il crimine organizzato e le autorità governative, e la conseguente impunità vulnerabile rendono le donne più colpevoli, consentendo al contempo la violazione dei diritti umani. Nel sistema politico messicano, la corruzione è eretta a sistema e alcune classi sociali, gruppi sociali e istituzioni godono di completa impunità sul piano politico e giudiziario, conducendo così una vera e propria violenza istituzionale. Questa pratica fa nascere nella popolazione una profonda sfiducia nei confronti di coloro che sono incaricati di far rispettare la legge e di garantire i diritti delle vittime e degli imputati. I crimini sono raramente puniti, le indagini sono approssimative e le tracce sono offuscate, soprattutto quando la polizia o l’esercito sono direttamente coinvolti. Per azione o omissione, le autorità non sono in grado di garantire alle donne il diritto alla vita e l’accesso alla giustizia. Così, molte famiglie non osano sporgere denuncia, per diverse ragioni: – per timore che la vittima sia associata, dai poliziotti, al crimine organizzato – per paura delle rappresaglie dei cartelli – per diffidenza verso le forze di polizia, che secondo i cittadini «non diminuiscono la violenza, al contrario: fanno paura a coloro che non fanno nulla di male» – perché i crimini sono commessi anche dalle forze armate statali, polizia o soldati Inoltre, nei rari casi in cui un’inchiesta può portare a un processo, le vittime si trovano di fronte a un sistema giudiziario totalmente inefficace. Nel 2007 il Congresso ha approvato la «Legge Generale di Accesso alle Donne per una Vita Senza Violenza», una legge che include per la prima volta una definizione legale del femminicidio, primo tentativo significativo del governo di affrontare il problema della violenza contro le donne. Tuttavia, la legge non stabilisce linee guida di condanna specifiche e la normativa in quanto tale risulta essere inapplicabile. Oggi in Messico non esiste alcuna certezza giuridica per le donne. Per il momento, il sistema giudiziario continua a funzionare, nella maggior parte dei casi, seguendo lo schema tradizionale delle fedeltà maschili e del clientelismo. Ciò significa che, generalmente, si dà ragione al più forte. La situazione viene riassunta dalle femministe messicane, nei seguenti termini: «ci uccidono perché sanno che non rischiano niente» 

Strettamente collegato a questi meccanismi istituzionali e strutturali di impunità dei criminali responsabili di violenza contro le donne, vi è un fenomeno di invisibilizzazione. Si possono distinguere tre cause: in primo luogo il trucco delle cifre ufficiali. I giornalisti Humberto Padgett ed Eduardo Loza hanno dimostrato nel libro “Les mortes del’Etat” che le cifre ufficiali del femminicidio nello Stato del Messico sono costantemente abbassate con l’aiuto della corruzione. La maggioranza dei pubblici ministeri non utilizza la classificazione in «femminicidio», annegando queste violenze particolari nella categoria «omicidi» e rendendo complicata un’analisi numerica del fenomeno di violenza contro le donne. In secondo luogo, le autorità mantengono un discorso di «crociata» contro i narco, «i buoni contro i cattivi». In questo modo negano totalmente il ruolo strutturale e il coinvolgimento dello Stato nelle violenze. Infine, la violenza contro le donne, presente in tutta la società, è in gran parte invisibilizzata dalla responsabilizzazione delle donne stesse e dai loro presunti legami con il narcotraffico. Spesso le donne assassinate vengono stigmatizzate perché sospettate di essere coinvolte nel traffico di droga o nel commercio sessuale, e le loro famiglie sono vittime di questo fenomeno. «Purtroppo, ogni persona uccisa da un proiettile è qualificata come legata al crimine organizzato, non c’è indagine, squalificano la vittima che «sicuramente era coinvolta in qualcosa», era un regolamento di conti, e non va oltre». Così, il narcotraffico è una «scusa» ideale per minimizzare le violenze di cui le donne sono vittime in modo sistemico, e deresponsabilizzare lo Stato.

Tuttavia, la violenza non deriva solo dai mercati della droga e dalla situazione di conflitto armato. L’origine della violenza contro le donne ha radici profonde. La tolleranza e la normalizzazione della violenza contro le donne trae origine anche dalle concezioni sociali e culturali dei rapporti instaurati.

Molti ricercatori messicani hanno studiato e descritto l’esistenza di una narco-cultura, identificata da un sistema di simboli, valori, credenze, norme, definizioni, usi e costumi intimamente legati al mondo del narcotraffico. La narco-cultura è caratterizzata dall’esaltazione di uno stile di vita segnato da dilapidazione, trasgressione, corruzione e impunità in un contesto circoscritto alla violenza, alle droghe e alle armi. Quali sono le identità di genere veicolate dalla narco-cultura? La costruzione maschile egemonica è quella del capo, le cui qualità sono il coraggio, l’audacia e il potere. Una caratteristica importante è il ripudio della vita, esprimendosi attraverso il gusto di uccidere, la vendetta. Sarebbero così abituati a comandare, sottomettere e controllare, imporre la propria volontà grazie al denaro, all’influenza e alle armi. L’esercizio del potere è verticale: colui che si trova sotto la scala gerarchica è percepito come più debole, e come qualcuno contro il quale si può dirigere la propria violenza in tutta impunità, secondo la convinzione che i gradini inferiori appartengono loro di diritto naturale. Secondo questa prospettiva si giustifica la subordinazione delle donne. Nella costruzione sociale dei narco, le donne sono spesso relegate allo status di «donna oggetto» attraverso il quale il narcotrafficante comunica alla società il suo successo in termini di ricchezza e potere sociale. La violenza contro le donne è quindi un meccanismo per stabilire la comunicazione tra uomini, un mezzo per esercitare un rapporto di potere sull’altro. I ricercatori hanno notato un’espansione di questa narco-cultura descritta sopra, non solo geografica ma anche culturale, con una crescente accettazione sociale delle persone e dei valori legati al narco, esercitando una particolare attrattiva sui giovani. 

Questa narco-cultura, e più in generale la violenza della società messicana, sono segnate da un fenomeno di spettacolarizzazione e di teatralizzazione. La narco-cultura si esprime e si riproduce in numerosi prodotti culturali consumati in tutto il paese, come i «narcocorridos» (genere musicale), i film, le serie televisive, i blog e i video amatoriali che riflettono ed esaltano la narco-cultura. Tutto ciò consente una crescente accettazione sociale dei valori legati al narco, e in particolare della violenza che la caratterizza, data «in spettacolo». Un secondo effetto di spettacolarizzazione della violenza contro le donne è il trattamento mediatico delle violenze esercitate contro di esse, in particolare il femminicidio. Questa mediatizzazione è stata incoraggiata dallo Stato, che ha voluto rendere pubblico il suo spiegamento di forza, mostrando i combattimenti, gli arresti, le confische di armi. Rita Sigato, antropologa, rileva i meccanismi di questa spettacolarizzazione: quando un femminicidio è mostrato nei media, il caso passa in loop, si analizza, si cercano tutti i dettagli, si mostra tutto per attirare lo spettatore. La violenza criminale, in particolare contro le donne, ha una forte dimensione teatrale: non si cerca più di nascondere i cadaveri in fosse comuni, i corpi sono mutilati ed esposti alla luce del sole. Nella stampa messicana, i cadaveri sono esposti in uno dei giornali, senza filtri, senza considerazione per l’impatto che può avere. Anche se l’aggressore, nel discorso mediatico, è condannato per l’atrocità del crimine, è anche presentato come un personaggio potente. L’antropologo vede così, nel modo di mostrare i femminicidi alla società, un effetto perverso che è una certa promozione e attrattiva per questa violenza e la potenza che essa conferisce, che presenta così un rischio di contagio. La violenza presente nei media e nei mezzi di comunicazione, combinata con un abbandono parentale e con ciò di un ordine sociale e morale, è presentata da alcuni ricercatori come una situazione strutturale, psicologico e familiare che genera terreno fertile per il reclutamento nella narcotici. 

Si nota infine una forte crudeltà negli assassinii di donne nelle zone contese dai cartelli. Sempre più spesso, non si trovano corpi interi, ma solo frammenti. C’è anche il caso di una bambina assassinata e rinchiusa in una valigia. Li chiamano «enmaletamientos». «Oggi, se lasciano una donna impacchettata in un sacchetto di plastica per la strada [riferimento a un femminicidio del 2003], credo che non sarebbe così reale/terrificante, perché direbbero che fa parte della logica della delinquenza organizzata». «Sono comunità in cui il femminicidio è naturalizzato, perché sono comunità molto violente, gli uomini vanno in giro armati». Così, la violenza è cambiata di grado, diventando sempre più estrema, incoraggiata da un fenomeno di spettacolarizzazione. Pertanto, trovando terreno fertile in una società già segnata da una violenza di genere, la violenza, e in particolare contro le donne, è naturalizzata, accettata, banalizzata, per la sua forte presenza nella quotidianità e per i fattori culturali che ne favoriscono lo sviluppo, inducendo le femministe a parlare oggi di una «cultura del femminicidio».

La violenza contro le donne è quindi diventata una questione centrale nella società messicana. Le aspettative e le speranze riposte dopo l’elezione del nuovo presidente Andrés Manuel López Obrador sono rapidamente svanite. In effetti, non è stato compiuto alcun passo avanti e, al contrario, la violenza ha continuato ad aumentare. Il presidente vede la campagna di denuncia delle violenze sessiste come una manovra di screditamento contro di lui e non come un problema sistemico contro il quale è urgente adottare misure concrete. Il paese deve anche ripensare la propria cultura attraverso un’ampia campagna di educazione e di informazione contro le discriminazioni di genere, poiché troppo spesso la donna è ancora considerata un oggetto o un soggetto subordinato, di valore molto inferiore a quello di un uomo. Occorre inoltre sottolineare che sarà impossibile per il Messico compiere progressi reali fino a quando non sarà dotato di un sistema giudiziario efficace che gli consenta di fare giustizia, perché è proprio il diffuso senso di impunità che spiega in gran parte la violenza contro le donne. Si pone anche una sfida di informazione, di fine dell’omertà imposta dai cartelli e dalle politiche e un processo di responsabilizzazione morale. La società civile sta gradualmente assumendo questo ruolo, con un recente consolidamento di movimenti femministi, determinati a rompere i tabù e a denunciare la violenza che subiscono. 

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