La politica “open door” della Germania, anno 2015

La guerra siriana scoppiata nel 2011 fu la causa di una delle peggiori crisi umanitarie della storia contemporanea. Essa infatti non modificò semplicemente gli equilibri geopolitici regionali, ma fu anche l’origine di una delle cinque grandi crisi affrontate dall’Unione Europea negli ultimi dieci anni: la crisi migratoria. In un clima generale di chiusura nei confronti dei richiedenti asilo, il 25 agosto 2015 Angela Merkel aprì le frontiere tedesche con lo slogan coraggioso «wir schaffen das», «ce la faremo».

La Cancelliera non applicò il Trattato di Dublino e permise ai rifugiati siriani che avevano già fatto domanda di asilo in altri Paesi UE, di entrare in Germania e continuare lì tali procedure burocratiche. Vennero ammorbiditi inoltre i controlli alla frontiera con l’Austria, consentendo a decine di migliaia di rifugiati bloccati in Ungheria di entrare nello Stato tedesco. L’approccio utilizzato dal governo venne successivamente chiamato “open door”. Come risultato di questo fenomeno, il Paese ricevette il numero più elevato di richieste di asilo di tutti i Paesi dell’Unione, per l’esattezza oltre 1,4 milioni, ossia quasi la metà delle domande totali inoltrate all’intero blocco dei 28 Stati membri.

La risposta al perché la Germania decise di applicare una politica di tale apertura, andando contro corrente rispetto agli altri Stati membri dell’Unione, non è univoca. Questo anzi aprì le porte a diversi interrogativi. Perché il governo tedesco scelse di accogliere soltanto i migranti siriani? Forse perché il loro livello di scolarizzazione e di integrazione è più alto rispetto ai migranti di altre nazionalità; i siriani si possono infatti considerare una valida risorsa dal punto di vista professionale, essendo molti di essi medici, professori ed imprenditori. Oppure la Cancelliera volle dare una lezione di solidarietà ad un’Europa impegnata a costruire muri, dando il buon esempio ai governi dell’Est ed ai britannici. Per altri osservatori invece, come Open Democracy, le sfide demografiche erano in cima alla lista delle ragioni della decisione tedesca, il bisogno di lavoratori qualificati, i problemi dell’invecchiamento ed il calo della popolazione. O anche, la ragione più semplice di tutte potrebbe essere che i tedeschi sapevano, meglio di tutti, cosa volesse dire essere profughi; mentre l’esercito sovietico avanzava verso ovest in Europa orientale all’inizio del 1945, molte persone di origine tedesca fuggivano di fronte a esso. Centinaia di migliaia morirono, ma tra i sei e gli otto milioni riuscirono ad arrivare in quella che oggi è la Germania, prima della fine delle ostilità. Un numero quasi uguale fu espulso dai Paesi dell’Europa orientale nei cinque anni successivi, perlopiù dalla Cecoslovacchia e da quelle parti della Germania (circa un quinto della sua superficie attuale) che i vincitori avevano attribuito alla Polonia. Tra il 1945 e il 1950 circa dodici milioni di profughi tedeschi arrivarono nello Stato tedesco. Questo potrebbe non spiegare le considerazioni fatte dal governo Merkel, sicuramente legate più a motivi di interesse economico che da sentimenti di solidarietà, ma può aiutare a comprendere il perché i tedeschi supportarono questa politica, a differenza degli altri popoli europei, e continuarono, in parte, a supportarla, anche quando cominciarono i problemi di contenimento del flusso di migranti.

Invero, alcuni mesi dopo quella fatidica decisione di apertura, il vento di consenso del Paese cominciò a cambiare; le dimensioni dei flussi migratori in Germania furono quasi senza precedenti nella recente storia europea: 1,5 milioni di persone in sei mesi. I bavaresi videro arrivare 175mila profughi in un mese, circa l’1,5 per cento della popolazione locale, aspettandosene lo stesso numero il mese successivo. Il 13 settembre 2015, solo 9 giorni dopo l’apertura delle frontiere con l’Austria, il governo Merkel dovette reintrodurre i controlli di confine in alcune regioni tedesche, e la polizia tedesca riprese a pattugliare i valichi di frontiera. Sebbene inizialmente i profughi riuscirono ad ottennere un completo stato di rifugiati, che consentiva loro di fare domanda per portare in Germania anche i propri nuclei familiari, dagli inizi del 2016 sempre più siriani riuscirono a ottenere solo un permesso temporaneo della durata di un anno. Nel dicembre 2016, con una mossa che divise l’opinione pubblica, la Germania iniziò a rimpatriare in Afghanistan alcuni richiedenti asilo non accettati, nonostante la situazione in tale Paese non fosse sicura.

Il calo di consenso da parte dei cittadini, l’insorgenza di movimenti politici capaci di spostare l’elettorato grazie ad un approccio anti-migratorio, costrinse il governo tedesco a correre ai ripari; con tale obiettivo, Angela Merkel contribuì, il 18 marzo 2016, alla firma di un Accordo controverso tra Unione Europea e Turchia: “per ogni siriano tornato in Turchia dalle isole greche, un altro siriano sarà reinsediato dalla Turchia verso l’Ue” dichiara il progetto. L’Unione versò 3 miliardi di euro già promessi alla Turchia per “aiutare le condizioni di vita dei 2,7 milioni di rifugiati”(ora il doppio) che ospita, con la promessa di altri 3 miliardi nel giro di qualche anno, in caso di necessità.

Quella scelta sancì definitivamente la fine della politica “open door” tedesca. “La Merkel dell’estate 2015, la cancelliera dei rifugiati, non esiste più”, affermò Karl Kopp, direttore degli affari europei della Pro Asyl, nel 2018. Alcuni affermano perfino che non si sia mai potuto parlare di “open door”, bensì di una decisione umanitaria o di una crisi gestionale. Le restrizioni tedesche in campo immigrazione non hanno fatto altro che aumentare, fino ad arrivare ad un drastico ribaltamento di slogan, come dimostrano le affermazioni della Merkel nel 2018: “Gli eventi del 2015 non devono ripetersi”, “il numero di richiedenti asilo in Germania è calato”,  “ma non dobbiamo accontentarci, e voglio sottolinearlo con enfasi”.

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