Afghanistan, un fallimento americano che ricorda il Vietnam

Gli Stati Uniti hanno firmato un accordo di pace con i talebani in Afghanistan. Avviene il 29 febbraio 2020, e sancisce un traguardo che le due precedenti amministrazioni americane non erano riuscite a raggiungere. Questo era per l’appunto l’obiettivo del Presidente Trump, mettere la sua firma alla conclusione di una guerra cominciata l’11 settembre 2001. Ma a quale costo? Diciotto anni, 2.300 vittime americane, mezzo milione di morti afghani, oltre mille miliardi di dollari spesi, e un accordo con i talebani, i “cattivi” che inizialmente si volevano scacciare da Kabul. Si dice che la prima vittima della guerra sia la verità. La verità è che gli Stati Uniti hanno dovuto tirarsi fuori da questo conflitto “impossibile da vincere”, trovando una via d’uscita con i più bassi costi politici possibili.

L’accordo, firmato a Doha dall’inviato americano Zalmay Khalilzad, e dal capo della delegazione politica dei Talebani, mullah Baradar, prevede una riduzione pianificata dei militari americani sul suolo afghano (già iniziata), da 14.000 a 8.600 unità entro 135 giorni dalla firma, arco di tempo nel quale verranno chiuse 20 basi, e che deve concludersi entro 14 mesi. La parte più importante del “Agreement for Bringing Peace to Afghanistan” è tuttavia quella dove si fa riferimento all’intavolamento delle trattative tra il Governo afghano e i Taliban, e che vede gli Stati Uniti nel ruolo di mediatore. È la parte più importante ma anche la meno facile, innanzitutto perché esistono profonde divisioni a Kabul, a cominciare da quella tra il Presidente Ashraf Ghani e il suo rivale alle Presidenziali, il cui risultato è stato annunciato un mese fa, cinque mesi dopo il voto. In un’analisi del Burke Chair in Strategy viene evidenziato quanto gli step proposti fino ad ora ricordino il fallimento degli Stati Uniti in Vietnam. L’amministrazione americana ha deciso di ignorare lo stato attuale delle forze afghane, il frazionamento e l’instabilità del governo, la sua dipendenza dagli aiuti internazionali, e gli enormi problemi economici che sconquassano il Paese.

La maggior parte delle reazioni mediatiche al processo di pace non ha preso in considerazione questi fattori, fondamentali per comprendere quanto questo possa al massimo essere considerato l’inizio di un percorso, ma sicuramente non il traguardo. Le riflessioni sono tutte concentrate sulle più immediate implicazioni militari, pur non avendo le informazioni necessarie. Siamo veramente sicuri di sapere la reale portata delle forze militari americani in Afghanistan? Nel calcolo non sono infatti stati inclusi gli agenti della CIA, i componenti civili, tutti quei militari delle Special Forces e combattenti non presenti nei registri ufficiali, per non parlare dei militari coinvolti negli sforzi aerei fuori dal territorio. Le operazioni di terra – e la potenza aerea – americane hanno compensato in questi anni un Air Force afghana limitata e troppo poco efficiente per garantire al Paese la sicurezza delle aree urbane – ma anche semplicemente la sua sopravvivenza. Inoltre, bisogna prendere in considerazione le forze NATO presenti sul suolo afghano, che secondo l’accordo dovrebbero essere ridotte a livello proporzionale con quelle americane.

 Allo stesso modo, per garantire la buona riuscita dell’accordo, è stata promessa la liberazione di 5000 fighters talebani in cambio della liberazione di 1000 militari del Governo afghano. Altra clausola, altro contrasto. la dichiarazione congiunta firmata il 29 febbraio 2020, a Kabul, tra il Governo Usa e quello afghano prevede soltanto il generico impegno di quest’ultimo a favorire il rilascio dei Talebani, senza spiegare quanti, come, quando. Già prima della firma dell’accordo, il presidente Ghani e il suo Consigliere per la Sicurezza Nazionale, Amdullah Mohib, avevano contestato la parte del testo relativa al rilascio dei prigionieri come una violazione della sovranità nazionale. Spetta a Kabul – questa la loro posizione – decidere quali Talebani liberare, non a Washington.

Il 10 marzo sarebbe dovuto cominciare il dialogo tra le due forze afghane. Altro ostacolo, il Covid-19. Questo non solo potrebbe rivelarsi un rallentamento al processo di pace, ma potrebbe indebolire ulteriormente la posizione del Governo afghano al tavolo negoziale. L’Afghanistan dipende in larga parte dal sostegno finanziario dei donatori stranieri, e il piano di aiuti internazionali sottoscritto nel 2016 si concluderà tra pochi mesi. Le potenze internazionali, messe in ginocchio da una pandemia del quale danno economico ancora non si comprende l’entità, saranno sempre disposte a spendere cifre considerevoli per l’Afghanistan? L’attuale processo, già sufficientemente fragile – al punto che il fallimento sembra più probabile del successo – non potrebbe sopravvivere senza continui aiuti economici. Secondo un’analisi della Banca Mondiale infatti, si stima che i costi di una pace si aggirano intorno ad un minimo di 4,6 ed un massimo di 6,4 miliardi di dollari all’anno.

Un problema di natura militare, un conflitto interno al Governo, un conflitto tra il Governo ed i Taliban, una pandemia, una questione di portafoglio. Sono tanti i pericoli che potrebbero minare il percorso avviato dagli Stati Uniti, che nell’impossibilità di mettere fine ad una guerra andata per il verso sbagliato, continua lungo il percorso senza via d’uscita, esattamente come in Vietnam.

Share via
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: