1968: quante mani per una Long Rifle? [Pt. 1]

“Mai mano d’uomo fu più empia quanto quella che qui uccise Severino Bonini”.

Inizia così una storia che nel tempo ha assunto sempre più i contorni della leggenda. Una storia che nasce dalla pietra e dalle campagne che nel tempo hanno protetto e custodito la Firenze rinascimentale. Una storia, ormai quasi leggenda, che si nutre della perversione degli uomini, che striscia nei sentieri più desolati, per poi versare nel sangue e nel dolore figli di una periferia misera ed amara che per secoli si è fatto finta di non vedere.

Parlare del caso del Mostro di Firenze è un qualcosa di complesso. L’ombra della belva copre indizi e prove, lasciando solo una scia di morte e di domande alle quali è complicato poter rispondere con certezza. Nonostante tutto, la Giustizia ha provato a raccontare come i fatti si siano realmente svolti e quindi, è sacrosanto precisarlo, una spiegazione lineare (?) esiste certamente. Esistono delle condanne definitive, come quelle per Mario Vanni e Giancarlo Lotti, ma solo per alcuni dei pluriomicidi compiuti dal Mostro, ed altre che si sono arenate per sempre, come quella di Pietro Pacciani, bloccata nel suo iter dalla scomparsa improvvisa dell’imputato.

La complessività del caso parte fin dal principio, ovvero da quando effettivamente il Mostro di Firenze ha cominciato a colpire. Secondo i giudici,  a volte con ob torto collo, la sequenza assassina, imputabile quantomeno a Pietro Pacciani, inizia nel 1974. Secondo altri (molti), il primo omicidio del Mostro si consuma il 21 agosto del 1968, a Lastra a Signa, in provincia di Firenze.

Gli elementi che porterebbero a collegare il ’68 con gli altri crimini successivi sono sostanzialmente due: l’arma e la tipologia delle vittime. Conviene, però, andare con ordine e partire proprio da quella notte.

Aprimi la porta perché ho sonno, ed ho il babbo ammalato a letto. Dopo mi accompagni a casa perché c’è la mi’ mamma e lo zio che sono morti in macchina (1)”. Questo è quello che dice Natale Mele, un bambino di soli sei anni, davanti all’abitazione di Francesco De Felice.

Si scoprirà, di lì a poco, che la mamma si chiama Barbara Locci, mentre lo zio, che zio non è, è l’amante della donna, Antonio Lo Bianco. I due sono stati uccisi in auto, in una strada appartata nelle campagne fiorentine, mentre facevano l’amore nella notte. Colpiti da otto proiettili, quattro ciascuno, con la lettera “H” nel fondello, sparati da una Beretta, calibro 22, Long Rifle.

Le indagini, nel giro di breve, si concentreranno su Stefano Mele, padre di Natale e marito della Locci. L’uomo, perfettamente a conoscenza delle continue relazioni extra coniugali della moglie, pare che, dopo anni di umiliazioni e tradimenti, abbia deciso di vendicarsi. Tal ipotesi è, almeno inizialmente, supportata dalla sua stessa ammissione e da ciò che il bambino, con varie difficoltà e ritrattazioni, conferma. Natale, Natalino per i più, dice di essere stato svegliato dalla detonazione dei colpi sparati alla madre e al suo amante, mentre dormiva nell’auto sui sedili posteriori. Riconobbe immediatamente suo padre e fu quest’ultimo a portarlo a cavalluccio davanti alla casa del De Felice. Fu accompagnato lì perché era un’abitazione vicina, perché aveva una luce accesa e dal luogo dell’omicidio (circa due chilometri) si vedeva piuttosto bene. Il bambino fu lasciato sulla soglia della casa, dopo che il padre lo aveva calmato cantandogli una canzoncina, ‘La Tramontana’, e dopo averlo istruito sul cosa dire. Natalino, dopo che Stefano si era dileguato nell’oscurità delle campagne, suonò e chiese aiuto. La riprova che ciò che dice sia vero sta nelle condizione dei suoi calzini: erano puliti (almeno così sembra inizialmente).

Una condizione assolutamente impossibile se si pensa che le scarpine erano rimaste nell’auto, che la strada percorsa era relativamente lunga e soprattutto sterrata. Se avesse camminato da solo, e non a cavalluccio con suo padre, come avrebbe potuto avere il tessuto delle calze così immacolato? E poi c’è l’ammissione dell’assassino, ovvero Stefano Mele. Dunque, vi chiederete, dove sta il problema?

Il problema sta nel fatto che l’uomo ritratterà più volte (come del resto Natalino). Accuserà prima se stesso, poi altre persone, come Salvatore e Francesco Vinci (altri amanti della Locci), poi dirà che erano tutti insieme, poi farà il nome di altri uomini, come Cutrona. Insomma, non è mai stato possibile capire davvero quante persone fossero realmente lì presenti. Inoltre, dov’è quella maledetta pistola che poi sarà usata dal Mostro di Firenze per commettere altri sette pluriomicidi negli anni avvenire?  La buttai via, disse Stefano Mele. Poi disse che l’aveva consegnata a Salvatore Vinci, successivamente disse che il Vinci non era sulla scena del crimine, per poi cambiare nuovamente versione.

Nonostante la confusione e tutte le difficoltà del caso, la Corte di Assise di Perugia condannerà in via definitiva il padre di Natalino a tredici anni di reclusione per l’omicidio di Barbara Locci e Antonio Lo Bianco.

Ma sapete qual è il punto che rende la faccenda estremamente complessa? Che forse quelle calze non erano pulite, che Mele viene condannato per un reato che non ha commesso e che quell’omicidio, nel 1968, è in realtà il primo di una serie infernale, ovvero quella del Mostro di Firenze.

Che cosa si può dire dunque? Poco. Non è chiaro cosa realmente sia successo quella notte. Pensare Stefano Mele come colpevole dell’omicidio di Lo Bianco e Locci è una tesi debole.

Questa versione, infatti, ha suscitato molteplici critiche da vari esperti, quest’ultimi infatti ritengono che dietro il crimine di Lastra a Signa ci sia molto di più e che alcuni individui, come ad esempio Salvatore Vinci (addirittura pare, secondo i pettegolezzi di paese, che fosse lui il padre di Natale Mele e non Stefano), siano stati scartati dalle indagini con troppa superficialità. Francamente non so con certezza dove risieda la verità oggettiva sulla faccenda ma spero che, leggendo i prossimi articoli, la questione potrà esservi più chiara e ognuno di noi potrà liberamente scegliere in che cosa credere.

(1): il dialogo è stato ripreso da “Mostro di Firenze al di là di ogni ragionevole dubbio”, un libro (estremamente ben curato e dettagliato) scritto da Paolo Cochi, Francesco Cappelletti e Michele Bruno.

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