Il Genocidio del Machete

È peccato uccidere un Tutsi? No. Sterminiamoli, sterminiamoli, uccidiamoli, uccidiamoli e bruciamoli nelle foreste, cacciamoli dalle foreste e bruciamoli nelle caverne, cacciamoli dalle caverne e massacriamoli. […] Non risparmiare neppure i bambini, non risparmiare i vecchi, non risparmiare le vecchie.

Sono queste le parole che si trovano su “Ubatubera”, n. 30 del 16 febbraio 1998, un quindicinale fondato dalla Comunità Europea che riporta testimonianze e informazioni raccolte nel corso del processo per i crimini commessi nel genocidio ruandese. Tra il 6 aprile e il 16 luglio 1994, infatti, in Ruanda si verificò una vera e propria guerra civile a causa dell’odio etnico tra due fazioni: quella degli Hutu e dei Tutsi. Tale conflitto è stato il risultato di una costruzione preparata coscientemente da ristrette élite politiche piuttosto che lo spontaneo esplodere di un atavico rancore. In quello che viene chiamato “genocidio del machete”, per evidenziare lo strumento più utilizzato per infliggere la morte e quindi la brutalità del conflitto, in soli 100 giorni vengono uccise circa 800.000 persone: si trattò del più elevato tasso medio di uccisione di tutto il Novecento dopo le morti causate dalle due bombe atomiche al termine della Seconda Guerra Mondiale.

Le due etnie protagoniste del conflitto vissero in relativa armonia fino all’inizio della dominazione belga nel 1924. I Tutsi rappresentavano l’aristocrazia della società ed erano detentori del potere politico, mentre gli Hutu, pur costituendo di fatto la maggioranza della popolazione, erano lavoratori agricoli e detentori del culto religioso ruandese. Dal 1924 il governo coloniale belga, per assicurarsi la collaborazione della fazione detentrice del potere politico, iniziò a distinguere le due etnie sui documenti identificativi e ad osservare disparità di trattamento tra gli individui di fronte alla legge sulla base dell’etnia di appartenenza. Inoltre, manipolando la dottrina religiosa ruandese, il governo coloniale iniziò a inculcare nei Tutsi l’idea che essi appartenessero ad una razza superiore, imparentata con quella caucasica occidentale.

Da qui, iniziarono forti tensioni tra le due etnie che si conclusero con efferati scontri lungo tutto il corso del ‘900 dovuti a violente rivolte della maggioranza Hutu contro la monarchia Tutsi. In seguito a tali conflitti, gli Hutu estromisero i Tutsi dal potere politico e iniziarono a detenere completamente il potere. Tuttavia, nel 1994, un missile terra-aria lanciato dagli stessi soldati governativi abbatté l’aereo presidenziale sul quale viaggiava il presidente Habyarimana: l’evento diede inizio ad una sanguinosa repressione dei Tutsi da parte degli Hutu durante la quale vennero commesse barbarie di ogni genere in maniera pianificata, controllata, capillare.

Ma lo sdegno non si limita ai fatti di sangue: l’atteggiamento del mondo occidentale e, soprattutto, delle Nazioni Unite fu di totale indifferenza. L’ONU, in particolare, si rese complice dell’efferato massacro, ignorando le richieste di aiuto del generale canadese Romeo Dallaire, al comando dell’UNAMIR (United Nations Assistance Mission for Rwanda) di invio di nuove truppe per impedire massacri pianificati di cui era già venuto a conoscenza. L’ONU trovò infatti l’opposizione della Francia di Mitterrand, legata al governo Habyarimana, e degli Stati Uniti di Clinton, reduci dal recente fallimento in Somalia.

Solo con la fine del conflitto venne istituito dall’ONU un Tribunale Internazionale per i crimini commessi in Ruanda nel 1994 (ICTR), che, accanto al Tribunale Internazionale per la ex-Jugoslavia, costituisce l’ultimo importante passo prima della creazione di una Corte Penale Internazionale permanente.

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