Una triade intrisa di sangue e fanatismo: Mladic-Seselj-Martic [E2]

Registrazione radio-telefonica durante i bombardamenti di Sarajevo.

“Qui il generale Mladic.”

“Sissignore.”

“Non spaventarti. Come ti chiami?”

“Vukosinovic.”

“Colonello Vukosinovic?”

“Sissignore.”

“Bombarda la Presidenza e il Parlamento. Spara ad intervalli lenti fino a quando non ti dirò di smettere”. Vukosinovic esegue gli ordini dall’alto delle montagne che strangolano Sarajevo.

Ancora Mladic: “Colpisci i quartieri musulmani, lì non vivono molti serbi. Bombardali fino a farli impazzire!”

Facciamo un passo indietro di circa un anno e andiamo in Croazia.

La situazione nello Stato di Zagabria è ai ferri corti. I serbo-croati hanno preso il controllo di alcuni centri urbani ed hanno cominciato ad espellere i cittadini croati. Uno scontro armato causa la morte di dodici poliziotti croati. Gli assassini sono gli uomini di Vojislav Seselj. Chi è quest’ultimo? Uno dei capi dei gruppi para-militari filo-serbi pronti ad uccidere chiunque li si pari davanti.

Accanto a questa orda di criminali e di fanatici nazionalisti, la Serbia schiera tutto il suo arsenale più temibile. Su tutti, nella polveriera croata, viene inviato un ufficiale federale che, in futuro, sarà il comandante dell’esercito serbo in Bosnia: Ratko Mladic.

Un uomo, un’ombra nera ed assassina che ancora oggi, il solo pronunciare il suo nome, fa tremare i sopravvissuti che, tra le lacrime e il tremore, si aggrappano alle proprie vesti.

“I confini si tracciano con il sangue e gli Stati si delimitano con le tombe” recitava Mladic, soprannominato lo Scorpione.

Egli, con il suo esercito, viene posizionato a presidio della cittadina croata Kijevo. Essa è un centro urbano vissuto da soli croati che, però, ha la colpa di sbarrare la strada ad altre località serbo-croate.

Milan Martic, altro tragico personaggio della nostra storia, è un comandante dei ribelli serbi ed intima un ultimatum alla polizia di Kijevo: “La polizia deve abbandonare il proprio commando.”

I croati si rifiutano di ubbidire ai diktat di Martic e tracciano una linea immaginaria: ‘Da qui non si passa.’

Purtroppo non sono le buone intenzioni a vincere le guerre. Infatti, il pugno violento di Mladic si abbatte sulla città di Kijevo, radendo al suolo la ‘Resistenza’.

“A Kijevo abbiamo colpito soltanto obiettivi militari. Non abbiamo distrutto una sola casa per il semplice gusto di farlo” parla beffardo lo Scorpione, gioendo per la sottomissione della città.

A distanza di anni, Milan Martic si lascia andare ad un’osservazione che racchiude tutta la violenza della triade Martic-Mladic-Seselj: “Eravamo armati meglio dei croati. Ovviamente alcune case sono finite in fiamme. Con l’artiglieria capita”.

La guerra, intanto, continua a imperversare nei confini croati e Tudjman, dato che conta un piccolo esercito, deve scegliere dove concentrarlo. Deve decidere una roccaforte e il dito viene puntato sulla città di Vukovar.

“Gettammo tutte le nostre forze nella sua difesa. Sarebbe stato un disastro per tutta la Croazia se i serbi fossero entrati nella città” commenta il presidente croato.

A Vukovar c’è tutta la triade: Mladic-Seselj-Martic sono pronti a muovere una guerra senza quartiere.

Un gruppo para-militare, in mano a Dragoslav Bokan, conquista una cittadina vicino Vukovar. Uccidono quarantotto civili croati a colpi d’ascia o sparando agli occhi. I corpi furono lasciati per strada come monito per gli altri abitanti.

Intanto la guerra continua e la morsa assassina dei serbi stringe sempre di più la città di Vukovar.

Dopo qualche anno, Panic, a capo dell’esercito serbo, commenta: “Decidemmo di non combattere casa per casa. Avremmo preso Vukovar con l’artiglieria pesante.”

I rifornimenti, per sostenere la popolazione e l’esercito della città assediata, filtrano tra le fila nemiche. Mile Dedakovic, comandante croato che guidava la resistenza, si rivolge direttamente al presidente Tudjman per ottenere l’artiglieria pesante.

“Ordinai di mandare a Vukovar i rifornimenti minimi necessari” ricorda Tudjman dopo anni di distanza.

“Non sto dicendo che il presidente non abbia inviato gli aiuti. Resta, però, il fatto che noi non li abbiamo ricevuti” conviene Dedakovic.


Vojislav Seselj

Ecco, a quanto pare, il disegno sotterraneo di Franjo Tudjman: far massacrare la cittadina sperando che la comunità europea si impietosisca ed intervenga nel caos serbo-croato. Una mossa che ha dei risvolti, almeno in termini di vite umane, disastrosi. I serbi, infatti, conquistano il centro urbano. La scia di sangue lasciata dalla triade Mladic-Seselj-Martic conta un terzo del territorio croato conquistato, 15.000 morti e un milione e mezzo di profughi. Vukovar diviene una città fantasma nella quale la polvere delle bombe avvolge lo scheletro degli edifici e i corpi dei civili.

Incute terrore il modo in cui raccontano i massacri i vari Seselj e Martic. Quest’ultimi, a differenza di Ratko Mladic che aveva comunque una carica militare – e quindi era riconoscibile -, sanno di agire nella più totale impunità. Guidano gruppi di volontari, nazionalisti, criminali incalliti che non hanno alcuna remore. Imbottiti di alcool ed eroina uccidono, bruciano e distruggono qualunque cosa gli si pari davanti. Sono eserciti senza nome e senza volto che hanno violentato la Croazia nell’anima e, questa è l’ingiustizia più grande, non pagheranno mai.

Milan Martic

Informazioni e dichiarazioni riprese dal documentario Jugoslavia – Morte di una nazione

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