Jovic e Kadijevic: strategie e trappole mortali [E1]

Borisav Jovic, Presidente della Jugoslavia, non ha remore al telefono con Stipe Mesic, rappresentante della Croazia nell’assemblea collegiale: “Allora è guerra.”

Si apre così uno degli scontri armati più cruenti dei Balcani. Zagabria, capitanata da Franjo Tudjman, ha tracciato il suo futuro: l’autonomia. La Serbia, intanto, lucida le canne dei Kalashnikov.

L’odore della polvere da sparo affiora nelle narici dei croati, seccando le loro gole. La Jugoslavia, guidata dalla Serbia di Slobodan Milosevic, è pronta ad impedire con qualsiasi mezzo il progetto secessionista.

Viene convocato il parlamento croato in seduta straordinaria e Tudjman dichiara lo stato di guerra.

A questo punto Jovic e il generale Kadijevic, ministro della difesa della Federazione, attuano la contromossa.

Pare che Zagabria, ormai da tempo, si stia armando clandestinamente per prepararsi allo scontro armato. Per le leggi della Federazione ciò costituisce reato e potrebbe far scattare le manette nei confronti dei responsabili ma questo non può essere fatto alla luce del sole. È necessario creare un diversivo perché gli importatori sono gli stessi ministri del governo Tudjman e arresti di questo calibro scatenerebbero la rivolta popolare della Croazia. Ma la Serbia ha un’arma: la finissima mente strategica di Borisav Jovic.

Quest’ultimo convoca l’assemblea collegiale che è l’organo che decide se far intervenire o meno l’esercito jugoslavo.

L’assemblea, dopo una lunga analisi della situazione croata, è pronta a votare ma Kadijevic consiglia una pausa per vedere, tutti insieme, il notiziario. È una trappola.

La stampa serba manda in onda, guarda caso, un filmato sensazionale. Il video riprende il generale Spegelj, ministro del governo Tudjman, mentre parla con due trafficanti di armi – ovviamente, tutto a sua insaputa. Il servizio, senza mezzi termini, viene presentato con due parole dai cronisti: “Teroristickih formacija (Formazione terroristica).”

La telecamera riprende Spegelj mentre ragiona sulle truppe in gioco: “In questo distretto militare, l’esercito jugoslavo dispone di 9.000 ufficiali e di 18.000 soldati. Il distretto copre Slovenia, Croazia e parte della Bosnia. Noi invece abbiamo 80.000 uomini armati di Kalashnikov”.

Subito dopo, la stampa serba inserisce una dichiarazione brevissima di Tudjman: “Non ci siamo armati illegalmente”. Il gioco è fatto: Tudjman mente, la Croazia è pronta a muovere guerra e l’unica alternativa per la Jugoslavia è difendersi. Ma il filmato, come se non bastasse, continua con Spegelj a ruota libera: “Non capite? Noi siamo in guerra!”

“Contro chi?” chiede uno degli interlocutori.

“Contro l’esercito jugoslavo.” risponde il ministro croato.

A questo punto per la Croazia lo spettro della guerra (e degli arresti) è tremendamente concreto.

Franjo Tudjman, dunque, non può fare altro che liberare le sue migliori doti da trattatore. Concede tutto: la consegna delle armi e dei trafficanti e, pare, anche l’abbandono della via secessionista.

Torna in Croazia e si “dimentica” di qualsivoglia promessa. Anzi, promulga una legge che conferisce l’immunità per tutti i ministri che hanno commesso il traffico di armi. Ci siamo: la guerra sta bussando alle porte di Zagabria.

Poche settimane dopo, il presidente Borisav Jovic convoca l’assemblea parlamentare jugoslava per votare l’intervento armato. Egli, insieme a Kadijevic, prepara un altro colpo di teatro.

La riunione si tiene al quartier generale dell’esercito jugoslavo, il 12 marzo 1991.

“La sala era gelida” commenta successivamente Tupurkovski, il rappresentante collegiale della Macedonia. Alla seduta ci sono tutti: i rappresentanti collegiali, Borisav Jovic, i soldati di Kadijevic (con il compito di mettere sotto pressione i politici) e una telecamera a riprendere il tragico show.

La parola viene subito presa dal generale Kadijevic che, in accordo con il presidente della Jugoslavia, stila una sorta di ‘j’accuse’ preventivo ai rappresentanti collegiali: “È in atto un subdolo piano per distruggere la Jugoslavia. La prima fase è la guerra civile. La seconda è l’intervento di forze straniere. L’ultima è l’insediamento di governi-fantoccio in tutto il territorio jugoslavo. […] Se non ordinate un’azione militare distruggerete la federazione! Decidete Voi!”. Poi si toglie gli occhiali e punta lo sguardo minaccioso verso i politici. A questo punto si vota. Servono cinque voti a favore su otto – uno per ogni Repubblica.

Il primo è Kostic, quota Montenegro, e vota a favore dell’intervento militare; il secondo è Tupurkovski per la Macedonia e vota “no”; Stipe Mesic, per la Croazia, chiaramente vota contro; Jovic, nenache a dirlo, è a favore; la Vojvodina, tramite Bucim, segue la Serbia; stessa decisione per il Kosovo. A questo punto manca un voto solo per mettere in moto i cingolati di Belgrado ma, ironia della sorte, c’è la Bosnia-Herzegovina a sbarrare la strada.

Prende la parola il rappresentante di Sarajevo: “È un mio dovere impedire ad ogni costo una guerra civile. Sono pronto ad approfondire la questione”.

Jovic perde le staffe ed esclama: “Quanto dici non ha senso! Vota!”

Cala il silenzio nella stanza. Il fumo di sigaretta impregna i completi dei rappresentanti e le divise dei soldati. La Jugoslavia è ad un bivio e quel bivio passa tra le gole montuose bosniache.

“Adesso qualsiasi intervento sarebbe controprudecente”. È un “no”.

Il piano di Kadijevic e Jovic, ovvero intimorire con i soldati la democrazia balcanica, fallisce miseramente. La seduta è chiusa. La Croazia, per ora, è salva.

È chiaro, però, che il sadico disegno di Slobodan Milosevic, appoggiato da Jovic e Kadijevic, non può fermarsi. E non può fermarsi così. Il presidente della Jugoslavia e il generale vogliono scavalcare l’assemblea collegiale. Vogliono combattere comunque ma temono un intervento armato dell’Occidente. Cercano sponde in Russia ma è tutto vano. Alla fine, in barba alle regole federali, decidono di scaricare tutto il peso della decisione proprio su Kadijevic. È lui che deve decidere se intervenire o meno.

Ancora una volta, però, la Serbia non ha fatto i conti con i suoi uomini. Infatti, nell’enorme silenzio che avvolge il generale la decisione non è affatto semplice. L’intervento militare comporterebbe ad una guerra con l’Occidente e Kadijevic sarebbe solo. La responsabilità è tutta sua. Cosa può passare nella testa di uomo in un momento del genere? Appesa alla volontà di Kadijevic ci sono migliaia di vite; migliaia di madri che piangeranno i loro figli; c’è una Croazia intera con il cappio intorno al collo; c’è lo sguardo assassino di Milosevic sulle sue spalle; c’è Borisav Jovic che fa pressione; c’è il silenzio e la morte – anche la sua, forse.

Chissà, magari per un forte senso delle istituzioni o per rispetto delle vite umane o, forse – perché no-, c’è anche della vigliaccheria che muove le labbra di Kadijevic che sorprendentemente, lui uno degli uomini pù fidati di Belgrado che tanto ha fatto per mettere alle corde Zagabria, dice di “no”.

No, non si interviene. Adesso potremmo dire che nei Balcani, come nelle favole, cala il sipario e non si muore più. Peccato che questa non è una favola che si racconta di fronte ad un camino, tra un caffè e una coperta per proteggersi dall’inverno. Questa è la realtà, la dura realtà della Jugoslavia. La guerra non è sventata. Zagabria non è salva. Milosevic e Jovic, silenziosi e feriti come bestie feroci, preparano l’assedio.

Veljko Kadijevic

Informazioni e dichiarazioni riprese dal documentario Jugoslavia – Morte di una nazione

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