“The Rumble in the Jungle”

Quando sport, storia e politica si intrecciano, ne viene sempre fuori un mix di racconti – a volte inusuali – meritevoli di essere narrati. L’episodio che vogliamo presentarvi oggi si lega ad uno degli eventi sportivi più impattanti di tutto il XX secolo. “The Rumble in the Jungle”: la sfida sul ring tra Muhammad Alì (Cassius Clay all’anagrafe) e George Foreman. Del primo si è scritto tantissimo, un’icona vera e propria del pugilato e dello sport. Uno degli atleti più vincenti di ogni epoca, capace di farsi spesso portavoce di messaggi politico-sociali all’interno di una società americana tendente alla stigmatizzazione della popolazione nera. Anche di “The Rumble in the Jungle” si è scritto molto. 30 Ottobre 1974 – Kinshasa (Rep. Democratica del Congo, allora Zaire). Presso lo Stade Tate Raphael, 60.000 spettatori stipati all’inverosimile – per la stragrande maggioranza africani – urlavano a squarciagola “Alì Bomayè!” [“Alì uccidilo!]. E qui arriviamo all’altro concorrente: George Foreman. Di lui forse si conosce meno, pur essendo stato anch’egli un pugile d’eccezione (all’epoca considerato imbattibile). C’è una storia nello specifico che lo riguarda, che oggi vogliamo raccontarvi, che si ricollega con quell’acredine feroce mostrata dal pubblico nei suoi confronti. Andiamo con ordine. Foreman era appassionato di cani. Di pastori tedeschi soprattutto. Ne aveva uno, dal pelo curato, che soleva portare con sé anche in ogni trasferta. Ebbene, nella conferenza stampa internazionale che precedette “The Rumble in the Jungle”, effettuata a Parigi, lo sportivo si presentò davanti ai microfoni con il suo fedele compagno a quattro zampe. Un gesto apparentemente simpatico e curioso. (Successivamente scese con lui anche dall’aereo una volta arrivato a Kinshasa). In realtà ebbe conseguenze incredibili. Come mai? L’ex Congo belga di Leopoldo II, durato dal 1908 al 1960, conobbe uno dei regimi africani più spietati in assoluto (potete leggere a riguardo il nostro articolo del 9 aprile 2019). Una pratica in uso della polizia belga era quella di liberare gruppi di pastori tedeschi e lanciarli su uomini inermi fino a farli sbranare ancora vivi.
Un’usanza aberrante, capace di traumatizzare generazioni di congolesi, che erano giunti da pochi anni all’indipendenza. Vedere dunque George Foreman mostrare orgoglioso il proprio cane, venne percepito come una provocazione immensa, una vergogna impossibile da lavare. “Alì Bomaye!”, lo slogan che si generò in breve. Atterrato a Kinshasa come sfavorito, Muhammad Alì si trovò a combattere contro il suo avversario trascinato da un’onda compatta di africani, tutti dalla sua parte. Con temperature oscillanti sui 40° e un’umidità spaventosa, l’incontro di boxe si consumò in un’atmosfera di sospensione estrema. Alla fine ebbe la meglio Cassius Clay, che con un diretto al viso all’8° round, mise KO George Foreman. L’immagine che potete vedere è una perla della fotografia sportiva, uno degli attimi più celebri. Come abbiamo visto, anche dietro a quegli istanti possono celarsi altri aspetti, meno conosciuti ma essenziali.

George Foreman insieme al suo amico a quattro zampe Dago.
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