Marie Colvin: storia di una coraggiosa war reporter

“BE PASSIONATE AND BE INVOLVED IN WHAT YOU BELIEVE IN, AND DO IT AS THOROUGHLY AND HONESTLY AND FEARLESSLY AS YOU CAN.” Potremmo definirla l’ultima eredità della più grande reporter di guerra che il mondo abbia mai conosciuto, Marie Colvin. La protagonista di questo articolo cominciò a lavorare direttamente sul campo fin dagli inizi della propria carriera. Nata il 12 gennaio 1956 a Oyster Bay (New York), aveva già chiara l’idea del proprio futuro professionale, ereditando dal padre, ex marine di tendenze democratiche, la propensione a lottare contro le ingiustizie. Prima ancora di laurearsi a Yale in antropologia, infatti, sapeva che la sua vita sarebbe stata riservata al giornalismo di guerra. Iniziò immediatamente a lavorare all’interno del “United Press International”, fino ad arrivare al magico momento che cambierà la sua intera esistenza. Nel 1985 divenne infatti, una reporter al 100%, andando in giro per il mondo a testimoniare le atrocità dei paesi in stato di guerra, a cui l’opinione pubblica mondiale distoglie costantemente il proprio sguardo; come se fosse dannoso per la salute non farsi assorbire dal nostro abitudinario cinismo. Marie Colvin fu la testimone delle più grandi tragedie umanitarie, senza aver mai timore delle conseguenze, delle sue, a prima vista, folli azioni. Stando alle sue stesse parole, “bravery is not being afraid to be afraid”. Si spingeva sempre oltre, con l’obiettivo sempre fisso in testa di raccontare le drammatiche vicende di ogni singola persona coinvolta nelle assurdità delle guerre, alle persone potenti. Questo suo spirito energico e apparentemente immortale, la condusse purtroppo a delle ricadute piuttosto gravi. La prima di queste si potrebbe definire “la cicatrice visibile del suo vissuto”. Si fa riferimento alla ferita riportata all’occhio, durante la sua testimonianza in Sri Lanka all’epoca dell’insurrezione delle tigri Tamil. In seguito a questo evento, fu costretta a portare una benda “da pirata” sul suo occhio sinistro, dal 2001 fino alla fine dei suoi giorni. Tale evento non le ha affatto messo un freno tra le ruote, anzi si è spinta ulteriormente nel proprio lavoro con maggiore motivazione, nonostante tutti i suoi colleghi e l’intera redazione del Sunday Times presso cui lavorava, le imponevano un riposo totale. La sua vita è la testimonianza di come una forte passione possa trasformarsi in dipendenza.Nel film “a private war”, uscito da poco nelle sale cinematografiche, dedito a narrare le sue temerarie vicende, si assiste ad un dialogo con il suo collega francese Paul Conroy, con cui morì in seguito ad Homs nel 2012. In tale colloquio infatti, Marie Colvin ribadisce il suo odio profondo nei confronti della guerra, ma paradossalmente sostiene di essere mossa da una necessità che proviene dalla sua stessa anima, che la costringe a guardare la guerra con i propri occhi, per poterla raccontare ai più. Riprendendo il filo delle ricadute dell’infermabile reporter, soffrì di gravi problemi di disturbi post-traumatici da stress. Per utilizzare il simbolismo usato precedentemente, si tratta della sua ferita nascosta più grande. Riviveva durante le sue giornate alcuni momenti orribili, che rimasero indelebili nella sua memoria. Fumava sigarette di continuo, ma per alleviare queste sofferenze mentali, si lasciava travolgere da devastanti ondate di alcolismo. La sua carriera fu estremamente “successful”. Dalla Cecenia a Timor Est, percorrendo poi tutte le regioni mediorientali, come inviata speciale di tale area specifica del globo, fu la prima ad intervistare l’ex leader libico Gheddafi e a scoprire i cadaveri sepolti sotto la terra irachena, durante il regime di Saddam Hussein. Il suo sguardo si pose poi sull’insorgere delle primavere arabe, che la portò nel suo ultimo viaggio nel 2012 a Homs, in Siria.
Qui seppur consapevole del tragico destino che l’aspettava, decise di rimanere fino all’ultimo nella struttura abitata dai giornalisti, che pochi minuti dopo la sua intervista per la BBC, fu bombardata e rasa al suolo. Al posto di seguire l’evacuazione che era stata effettuata, decise di andare incontro al suo destino, scritto nelle pagine della sua vita fin dalla sua comparsa sulla terra. Il responsabile della sua uccisione fu il governo siriano di Bashar Assad, ben lieto di porre fine alle sue parole infuocate che illuminavano l’ombra imponente della realtà del paese, caratterizzata dai più efferati crimini contro l’umanità, come vennero successivamente considerati dai governi occidentali. Il regime aveva bisogno di mantenere il silenzio a riguardo, e lei di certo non lo stava aiutando. Come lei stessa affermò infatti, ciò a cui assistette ad Homs fu una delle esperienze più traumatiche. Considerò il conflitto in corso come una delle peggiori guerre, cui con l’ausilio della propria “penna”, cercò di porre sotto i riflettori, rendendo le persone consce di quello che succedeva dietro i propri divani. Luogo da cui assistiamo ormai con assoluta inerzia e passività nelle nostre case, quello che la maggior parte della gente affronta, non avendo avuto la nostra stessa fortuna di vivere in un paese in pace; almeno per ora. Quel giorno il mondo venne privato di una donna straordinaria, la cui storia dovrebbe accendere in noi la grinta di vivere secondo le proprie passioni.

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