COP24: Impressioni e risposte

Dopo due settimane di estenuanti trattative, si è conclusa lo scorso 15 dicembre 2018 a Katowice (Polonia) la COP 24, annuale conferenza sul clima indetta dall’ONU. Obiettivo principale di questo summit consisteva nell’elaborare ed adottare un insieme di decisioni che avrebbero dovuto garantire la piena applicazione dell’accordo siglato a Parigi nel 2015 da 195 paesi (COP 21). La Polonia non è nuova ad ospitare una conferenza sul clima, in precedenza si tennero infatti sul suo territorio la COP 5, 14 e 19. Una scelta fortemente simbolica, quella della città di Katowice, centro propulsore della produzione di carbone e una tra le zone più inquinate al mondo.
Se da un lato è innegabile la presa di coscienza da parte dell’opinione pubblica mondiale sull’urgenza del tema ambientale, non altrettanto si può dire riguardo la concreta azione da parte della comunità internazionale. Il 2018 è stato un anno in cui quasi ogni area del pianeta è stata toccata da disastri naturali o condizioni climatiche estreme: gli uragani Florence e Michael che hanno colpito la costa sud est degli Stati Uniti, i tifoni Mangkhut e Yuri abbattutisi sul Pacifico, la siccità di Argentina e Uruguay, l’incendio in California (il più mortale e devastante nella storia americana), alluvioni e frane che hanno coinvolto Africa, India, Giappone, Corea e Caraibi, ma ancora temperature estreme che hanno caratterizzato l’Europa.
Tutto ciò ha reso tangibili, agli occhi di tutti, le conseguenze incombenti dell’innalzamento della temperatura. All’evidenza scientifica non è però corrisposta un’adeguata e tempestiva azione dei governi per far fronte a quest’urgenza.
Ad allarmare ulteriormente il quadro, vi sono due rapporti scientifici pubblicati entrambi lo scorso ottobre. Il primo è il report dell’ IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) secondo cui occorre contenere l’innalzamento della temperatura entro 1,5 °C. Obiettivo raggiungibile solo attraverso un impegno concreto: occorre infatti ridurre le emissioni di CO2 del 45% rispetto ai livelli del 2010 entro il 2030 ed arrivare ad un bilancio netto di zero emissioni entro il 2050, il che significherebbe passare completamente ad un’energia pulita, non fossile.
Il secondo report fa capo all’UNEP (United Nations Environment Programme) e prevede che le attuali emissioni di gas serra ci condurrebbero ad un riscaldamento di 3,2 °C entro la fine del secolo.
Di fronte ad un panorama così critico, ci si sarebbe aspettati una presa di posizione forte da parte dei governi mondiali, ma ciò non è avvenuto. L’incontro di Katowice si è aperto con le emozionanti parole del naturalista David Attenborough, il quale ha sottolineato come il cambiamento climatico sia non solo un disastro di scala globale causato dalla mano dell’uomo, ma la più grande sfida che ci si presenta oggi da migliaia di anni.
Monito che però sembrerebbero non essere stato ascoltato. Tra gli atteggiamenti più intransigenti e che possono sconvolgere figurano USA, Russia, Kuwait e Arabia Saudita, i quali hanno rifiutato il rapporto dell’IPCC. Questi colossi del petrolio non hanno quindi né riconosciuto né condiviso le conclusioni dell’IPCC, ma si sono limitati ad “accoglierle favorevolmente”. Detto in parole povere: riconoscono l’importanza dello studio ma ne non adattano in modo vincolante le decisioni. All’ormai nota ostilità dell’amministrazione Trump nei riguardi dei temi ecologici (il presidente USA intende uscire dall’Accordo di Parigi, ma per il momento non può in quanto vincolato per tre anni), si aggiunge la nuova via intrapresa dal Brasile, designato paese ospitante della COP 25. Bolsonaro si è infatti ritirato da tale impegno durante la Conferenza di dicembre.
Ulteriore buco nell’acqua è stato l’impegno di mantenere entro 3 °C l’aumento delle temperature, dato insufficiente (il rapporto IPCC afferma infatti la necessità di rientrare nei 1,5º C). Stando così le cose, sembrerebbe giustificato il commento di Greenpeace sugli esiti della COP 24, secondo cui questa “si è conclusa senza nessun chiaro impegno a migliorare le azioni da intraprendere contro i cambiamenti climatici”.
Occorre però mettere in evidenza anche risultati positivi raggiunti dalla conferenza. Primi tra questi è l’approvazione di un regolamento relativo all’applicazione dell’accordo di Parigi, il cosiddetto “rulebook”, che fissa e definisce i criteri di rendicontazione, monitoraggio e revisione degli impegni assunti dai singoli paesi per contrastare i cambiamenti climatici. In secondo luogo, viene meno la tradizionale differenziazione degli obblighi sul clima tra paesi industrializzati in via di sviluppo, ciò significa che il rulebook ha fissato le stesse misure per tutti. In terzo luogo, è stato istituito un fondo di 100 miliardi all’anno a partire dal 2020 per i paesi in via di sviluppo a raggiungere i propri obiettivi sul clima.
Tali provvedimenti sono comunque incompleti, in quanto solo determinate disposizioni del rulebook sono vincolanti, mentre per la maggior parte l’adesione è volontaria ed inoltre non è stato previsto alcun meccanismo di sanzioni in caso di inadempimento.
Certo si poteva e doveva fare di più, come ricordato da Attenborough “we’re running out of time”. Una presa d’azione deve avvenire ora, ma dobbiamo ricordarci che sebbene le conferenze sul clima rappresentino un percorso lento e burocratico, sono comunque la migliore soluzione di cui disponiamo. In questo senso i negoziati di Katowice, frutto di un compromesso tra quasi 200 stati, hanno segnato un successo del multilateralismo, delineando “una tabella di marcia con cui a comunità internazionale può affrontare in modo decisivo il cambiamento climatico” (Patricia Espinosa, responsabile delle Nazioni Unite per il clima).

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