Reportage dal Senegal

Siamo arrivati in anticipo all’aeroporto di Dakar. Era sera tardi, mi pare di ricordare che fossero appena passate le undici, e l’area fumatori davanti al parcheggio era quasi vuota, fatta eccezione per i pochi viaggiatori ben contenti di poter finalmente aspirare il fumo di una sigaretta, scesi così da un lungo volo. Dopo una decina di minuti di attesa, abbiamo incontrato i nostri accompagnatori di Andem in Senegal, e siamo quindi saliti sul pulmino Toyota Hiace, fedelissimo compagno di viaggio. La strada per Toubabab Dialaw, asfaltata in modo precario, è costeggiata da costruzioni instabili, abitazioni abbandonate e boutique, termine del quale di lì a poco avrei compreso il significato: piccole stanze colme e traboccanti di ogni tipo di merce buona per la vendita, da generi alimentari quotidiani a capi d’abbigliamento, dagli smalti ai caricabatterie per cellulari. E all’interno di queste boutique agli estremi dei villaggi, la gente lavora continuamente, senza distinzione fra il giorno e la notte. Così è iniziato il mio viaggio nel paese della teranga. Un aspetto davvero incredibile del luogo è l’ottima e calda accoglienza. “Teranga”, che in Senegal significa non solo ospitalità, termine forse troppo facile a equivoci, ma anche gentilezza, gioia e piacere nel ricevere un ospite, è convivialità e condivisione.

Un altro aspetto che salta agli occhi è l’impegno sociale e di gestione familiare che dimostra il genere femminile: le donne sono grandi lavoratrici, fin da bambine si prendono cura dei fratelli, per altro in famiglie in cui è solitamente presente almeno una decina di figli, tenendo conto che la religione permette all’uomo di essere poligamo. Appena ne hanno l’età iniziano ad occuparsi delle faccende domestiche, della pulizia della casa, della cucina e delle relative spese. Al di fuori di questi compiti “consueti”, molte donne in Senegal hanno intrapreso, specie negli ultimi anni, altri generi di attività, che vanno dal settore tessile, ad esempio con il lavoro dell’associazione Sunugal nella cooperativa Jis Jis, affiancata da un centro di formazione (nel dipartimento di Guédiawaye, regione di Dakar), dove un gruppo di sarte e sarti insegnano a giovani ragazze il mestiere, così da garantire loro un futuro economico, al settore agricolo: è infatti in crescita il numero di campi coltivabili, grazie anche all’appoggio di volontari e donatori che hanno dato i fondi per costruire pozzi e impiantare pannelli solari, curati dalle donne, le quali permettono così alla propria famiglia e al proprio villaggio di avere un sostentamento alimentare più autonomo di quello garantito esclusivamente dal commercio. 
Alla partenza non sapevo proprio che cosa aspettarmi, e, arrivata sono rimasta piacevolmente sorpresa dalla cordialità dei locali, dal loro buonumore instancabile, dall’intensità dei profumi e dei colori del Lac Rose, posti in un contrasto inebriante, e dalle vivaci musiche tradizionali in un bar di Saint Louis. Insieme a questo ho vissuto il traffico e il caos in quella fiumana di auto e uomini che è Dakar, minacciosi messi a confronto con la calma e il torpore in villaggi come Beud Dieng e Diol Kadd, dove il tempo e le persone sembrano imperturbabili. Ho avuto l’occasione di nuotare nell’oceano che bagna le rive della Langue de barbarie e di entrare a stretto contatto con la natura nel Parco di Djoudj. L’oceano, il deserto e la vegetazione, il francese e i molti dialetti, l’islam, il cristianesimo e le altre religioni presenti, sembrano incastrarsi e combaciare perfettamente, lì in Senegal, dove una delle parole più pronunciate è “Jamm”: la pace.

Share via
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: