Quella micro guerra tra Cina e Unione Sovietica

Alla fine degli anni ‘60, all’apice delle tensioni sino-sovietiche, le due potenze si scontrarono in una serie di piccoli conflitti nell’area di confine contesa lungo il fiume Ussuri, un corso d’acqua ghiacciato in Siberia. Le truppe sovietiche erano “in movimento”, affermava Mao, e l’Unione Sovietica aveva “più e più volte” aumentato le proprie forze nel tentativo, come sosteneva il “Quotidiano del Popolo”, di creare un “anello di accerchiamento contro la Cina”. In una sequenza di azioni e reazioni, entrambe le parti ammassarono le proprie forze lungo il confine, contrapponendo così più di 65.000 soldati cinesi a 290.000 soldati e 1.200 aerei sovietici. Mao aveva minacciato una massiccia “guerra del popolo”, che sarebbe stata “una gara dell’umano potere e morale”. Secondo quanto riferito dal più alto ufficiale sovietico che sia mai passato all’Occidente, Arkady Shevchenko, il Politburo era terrorizzato dalla “prospettiva da incubo di un’invasione di milioni di cinesi”, prospettiva che aveva gettato i leader sovietici “pressoché nel delirio”. Per potere inquadrare bene la situazione che ha portato a questi accesi contrasti, bisogna risalire almeno al 1953, anno di morte di Josip Stalin. Il successore Nikita Chruscev avviò un vigoroso programma di “destalinizzazione”, tentando di correggere quelle che per lui erano storture del sistema sovietico. Questa mossa tuttavia provocò non poche incomprensioni con alcuni regimi dichiaratamente filo-stalinisti. Si prenda ad esempio l’Albania di Enver Hoxha, che prese immediatamente le distanze. La Cina dal canto suo irrigidì i contatti diplomatici con i vicini di casa. D’altronde l’Urss di Stalin aveva appoggiato con forza Pechino durante la resistenza anti-giapponese (anni ’30-’40). Oltre a questo, la neonata Repubblica Popolare Cinese (fondata nel 1959, con Mao Tse Tung al comando) aveva beneficiato di un sostanzioso supporto economico da parte del regime di Stalin. Anche in seguito alla caduta di Chruscev la tensione rimase alta, e alcuni incontri avvenuti tra il Presidente cinese Zhou Enlai e Leonìd Breznev non portarono a nulla. Nel 1969 poi, la situazione rischiò di degenerare definitivamente.
Il 2 marzo 1969, l’Esercito Popolare di Liberazione tese un’imboscata alle truppe sovietiche stanziate lungo il confine presso l’Isola Zhenbao, sul fiume Ussuri, a cui seguì subito dopo un secondo attacco in cui persero la vita 91 sovietici a fronte di 30 soldati cinesi. I dragoni orientali pianificarono l’imboscata con l’intento di infliggere un colpo psicologico, piuttosto che una sconfitta militare. Seguendo la conclusione fornita da Michael Gerson, il suo obiettivo era quello di “scoraggiare ogni futura aggressione o coercizione dei sovietici ai danni della Cina” e di “dare una dimostrazione persuasiva del coraggio, della determinazione e della forza della Cina di fronte a quella che veniva percepita come un’incombente minaccia sovietica”.

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