La Bosnia-Herzegovina dopo gli accordi di Dayton

Sembra strano ma per parlare della Bosnia-Herzegovina bisogna partire dall’Ohio (USA). E più precisamente dalla città di Dayton. Qui, nel 1995, i tre volti della guerra, sotto la guida del mediatore statunitense Richard Holbrooke, hanno stipulato la pace.
Slobodan Milosevic, Franjo Tudjman e Alija Izetbegovic hanno tracciato la via da seguire per i decenni futuri. Gli Accordi di Dayton, che furono salutati come un clamoroso successo – in parte con ragione -, misero fine alle bocche di fuoco dei kalashnikov ma allo stesso tempo hanno ancorato uno Stato intero all’immobilismo e alla stagnazione economica. 
Dopo ventiquattro anni è possibile cominciare a tirare qualche somma e forse il bilancio finale non è così positivo. Intanto, mettiamo i puntini sulle “i”: a Sarajevo, e così in tutta la Bosnia, non si muore più per la guerra. Il Paese vive una realtà relativamente pacifica ma le cicatrici restano – e sanguinano. Il trattato ha costruito un sistema governativo farraginoso e disomogeneo che ha rilegato la BiH ad una staticità sociale ed economica tremenda. Un meccanismo politico sorretto da governi diversi che, ogni otto mesi, cambia presidente. A turno lo scettro del potere passa in mano prima alla fazione bosgnacca (i musulmani) poi ai croati-bosniaci ed infine ai serbi. L’obiettivo era quello di avviare il Paese verso un futuro florido e ricco di riforme, per puntare ad una sognata entrata nell’Unione europea ma l’effetto è stato quasi il perfetto contrario. I salari restano molto bassi, l’istruzione ha fortissime carenze e la politica estera è un campo ancora quasi totalmente inesplorato. Alcuni territori del Paese sono ancora minati e le vie di comunicazione sono decisamente arretrare. Un esempio: Tra La capitale Sarajevo e Mostar (una delle città più importanti) ci sono poco meno di 130 km; il tempo di percorrenza del tragitto oscilla tra le tre e le tre ore e mezza. È inevitabile, ovviamente, rendersi conto che senza una buona rete di comunicazione non ci può essere sviluppo. Né per il turismo né per le merci. 
Milorad Dodik, l’attuale presidente della fazione serbo-bosniaca, non solo sta acuendo sempre più la separazione etnica ma millanta – a farsi alterne – una possibile secessione della Republika Srpska (cioè il 49% dello Stato) dalla Bosnia. Quest’area appena citata ha un’origine che risiede proprio negli Accordi di Dayton e ha reso inevitabilmente il Paese più debole e smembrato.
Le altre due quote politiche, bosgnacca e croata, a seguito delle ultime elezioni hanno ancora da battere un colpo allo strapotere mediatico e decisionista di Dodik. Ancora sono “incastrate” con il passato, ancora non sono riuscite a darsi un progetto unitario post guerra. Ogni gruppo, almeno questa è l’impressione, è troppo impegnato a guardare solo nel proprio orto. Tutti parlano di etnie e di divisione, tutti parlano di bosgnacchi, serbo-bosniaci e di croati ma ancora, e chissà per quanto, non si è mai sentito parlare di un’entità unica e coesa: i bosniaci.

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