John Cantlie: l’ostaggio divenuto volto della propaganda del terrore

Rapito per la prima volta in Siria nel Luglio 2012 insieme al fotografo olandese Jeroen Oerlemans da un multietnico gruppo di militanti inglesi e salvato una settimana dopo da quattro membri dell’esercito siriano libero, il corrispondente di guerra britannico John Cantlie viene nuovamente rapito nel Novembre 2012 insieme al giornalista americano James Foley (decapitato nell’Agosto 2014) ed è tutt’ora tenuto in ostaggio dallo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante. Scomparso per circa due anni a partire dal suo secondo rapimento, si hanno nuovamente notizie di Cantlie solo il 18 Settembre 2014, quando appare nel primo episodio della serie “Lend me your Ears” prodotto da ISIS tra Settembre e Novembre 2014 e composta da 6 episodi (più uno introduttivo). Con un titolo che fa chiaro riferimento alle origini inglesi del suo protagonista, direttamente ispirato al celebre verso (uno dei più famosi in assoluto) d’apertura del discorso di Marco Aurelio nel “Giulio Cesare” di Shakespeare, emblema di una retorica emozionale e riferimento per la dialettica politica nel corso della storia. Nei primi video, John si presenta seduto ad un tavolo di legno con uno sfondo nero alle spalle, indossando la tipica maglia arancione dei prigionieri, e prende saldamente posizione contro le linee della politica estera occidentale e le scelte statunitensi e britanniche in merito al pagamento dei riscatti per la liberazione dei prigionieri. In un secondo momento, Cantlie partecipa alla realizzazione di una seconda seria di video aggiuntivi (“Inside Kobani”, “Inside Mosul” e “Inside Aleppo”), nei quali passa a vestire di nero come i suoi carcerieri o, addirittura, abiti casual che lo ritraggono non più nei panni dell’ostaggio, ma del giornalista occidentale: in essi, girando per le strade delle suddette città a cavallo di una motocicletta, il reporter racconta con chiarezza le strutture della società islamica e offre una diversa visione rispetto a quella promossa dai media occidentali dei fatti occorsi nelle città stesse. Cantlie utilizza una modalità di rappresentazione auto-ritrattistica
(caricata della forza visiva di un’immagine che vuole colmare l’assenza di un corpo tenuto in ostaggio) problematica ma rassicurante, trasmettendo alle proprie parole un enigmatico e conturbante senso di sincerità, consapevolezza e volontarietà. Lasciando attonito e perplesso uno spettatore che non sa più dove collocare Cantlie stesso, tra la sindrome di Stoccolma, la Sherazade de “Le mille e una notte” e il vile compromesso, egli ricorre ad un’ambiguità testimoniale a suo modo attraente, che lascia insoluto anche il mistero della sua morte/sopravvivenza.

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